Marzia Colace è una pedagogista e giudice onorario minorile. Da sette anni si occupa di adozioni e ci parla del difficile inserimento a scuola dei BES
Nella mia esperienza incontro minori stranieri accolti da famiglie italiane e minori italiani che, non avendo potuto beneficiare del diritto a crescere in seno alla propria famiglia, sono adottati, sempre nel nostro territorio, da famiglie idonee.
All’interno del contesto scolastico per il corpo docente si tratta di conoscere, nel primo caso, bambini stranieri che entrano a far parte delle classi quasi “dall’oggi al domani” con un bagaglio culturale per lo più distante dal resto dei compagni e con una storia personale e di emozioni spesso amplificate. Minori per i quali, nel momento in cui mettono piede sul territorio italiano, il Tribunale per i Minorenni dichiara l’efficacia della relativa sentenza di adozione estera e definisce per lui legalmente la permanenza sul suolo nazionale dopo poco tempo dall’arrivo in aeroporto.
I bambini italiani adottati con la procedura nazionale, dall’altra parte, diventano alunni che, allontanati dal nucleo originario familiare disgregato e disfunzionale, vengono inseriti in un nuovo contesto familiare scrupolosamente selezionato. Gli stessi bambini, per esigenze territoriali, spesso si allontaneranno dal proprio contesto familiare d’origine e/o dall’Istituto tutelare dove erano collocati e saranno inseriti in un nuovo ecosistema familiare e sociale.
Le due tipologie di adozione divergono in diversi “nuclei di significato” per le caratteristiche che le qualificano. Ma punti fermi per la trattazione di entrambi i casi sono la Carta costituzionale e l’obbligo scolastico.
La Carta Costituzionale in qualsiasi caso, garantisce la responsabilità degli adulti nei confronti dei minorenni i quali sono sia esseri biologici in evoluzione, sia cittadini in corso di maturazione (l’art. 3 recita che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di religione, di credo politico, di condizioni personali e sociali; L’art. 30 recita che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli e l’art. 34 recita che la scuola è aperta a tutti); l’inosservanza dell’obbligo scolastico, d’altro canto, si riferisce alla responsabilità degli adulti e dei genitori che non provvedono a far frequentare la scuola dell’obbligo.
Come ben emerge dalla Costituzione italiana la scuola è fondata sull’equità, sulla promozione sociale e sulla valorizzazione di tutti gli alunni, qualunque sia la loro condizione personale e sociale.
La storia della scuola e della legislazione scolastica raggiunge il momento storico attuale e contemporaneo per allontanarsi da concetti quali integrazione (che rimanda a nozioni di sostegno, di aiuto, di cura), di didattica che si apparta generando fenomeni di pull-out o di differenziazione didattica, a fronte di diagnosi specialistiche che determinano e incancreniscono le differenze fra patologia e normalità.
L’excursus storico ci consente di approdare solo da poco – e finalmente – al diritto di rappresentare l’inclusività nel rispetto dell’identità e dell’originalità di ciascun alunno che è di per sé unico e irripetibile in quanto essere umano. I passi che conducono a tale prospettiva inclusiva sono la legge n. 170 del 2010 ed il DM 5669 che riconoscono il diritto di personalizzazione didattica agli alunni con DSA ai quali sono destinati, quindi, interventi pedagogici e didattici personalizzati, ma che in pratica ne limitano l’effettiva integrazione all’interno di una classe ancora definibile nella sua maggioranza normodotata.
Ulteriore passo in avanti – e considerevole traguardo verso il concetto di inclusività – è la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 con la relativa Circolare di marzo 2013: il concetto di inclusività si fa avanti allontanandosi, ancora a fatica, dal concetto di diversità dell’alunno portatore di un disagio. Si parla, infatti e finalmente, di un diritto di personalizzazione del percorso formativo ad alunni non certificati, non diagnosticati e non patologici.
Vero è che all’interno delle classi scolastiche è presente un numero di alunni che non sono portatori di certificati di patologia o di disturbo evidente e misurabile secondo tabelle clinico-psicologiche o testistica neuropsichiatrica, bensì alunni che sono caratterizzati da disagi per i quali è inesistente una diagnosi nosografica ed eziologica, ma che presentano specifici bisogni a cui è doveroso rispondere. In ciò ritengo rientrino senza alcun dubbio anche i minori adottati che frequentano la scuola.
La definizione di BES è riferibile a un ambito politico e non clinico e risponde all’esigenza di equità nel riconoscimento da parte dell’istituzione scolastica e del sistema di welfare, delle situazioni di “funzionamento globale del soggetto” (salute bio-psico-sociale).
Cosa significa “funzionamento globale del soggetto”?
L’approccio al concetto è sostanzialmente antropologico. Nei contesti educativi (formali ed informali) è in atto in modo permanente il processo di apprendimento all’interno del quale si sviluppano competenze cognitive, linguistiche, interpersonali, motorie, valoriali, autoriflessive, emotive, e così via. Lungo il proprio sviluppo il bambino, l’alunno, il piccolo d’uomo, intreccia le spinte biologiche alle svariate forme di apprendimento. Questo lavoro può essere regolare e fluido come, altresì, può non esserlo.
In questo sistema autoregolante gli agenti educanti (scuola e famiglia in primis) sono mediatori viventi del funzionamento quale intreccio fra biologia, ambiente, relazioni e autodeterminazione.
Andiamo per gradi e definiamo il bisogno: nel quadro del funzionamento bio-psico-sociale esso è la fisiologica interdipendenza con l’ecosistema in cui un alunno è immerso entro il quale vige uno stato di salute che è sinonimo di benessere fisico, mentale, relazionale e sociale.
Se i bisogni educativi di ciascun alunno coincidono con:
- lo sviluppo delle competenze personali ed interpersonali
- l’acquisizione di contenuti didattici
- la meta cognizione
- l’autonomia
- l’identità
- l’appartenenza sociale
- l’autostima e la valorizzazione di sé
- l’accettazione di sé,
allora i bisogni educativi speciali sono una difficoltà evolutiva, in ambito educativo e/o di apprendimento, che si evidenzia nel funzionamento problematico (danno, ostacolo, stigma) indipendentemente dalla eziologia e che necessita di educazione speciale individualizzata.
È come dire che la specialità sta nel complesso funzionamento degli stessi bisogni evolutivi che devono trovare quindi un soddisfacimento diversificato.
Il bambino adottato ha “un problema in più” che va oltre il bisogno di creare realtà affettive e modelli concreti e reali di senso parentale. il senso di appartenenza disgregato e destrutturato è duplice nella sua cicatrizzazione. Tenuto conto il diritto riconosciutogli di accedere alla conoscenza delle proprie origini, questi deve introiettare radici lontane, che un giorno dovranno essere a lui note, e le radici della nuova famiglia nella quale deve costruire un’appartenenza diversa, solida e strutturata entro la quale identificare e definire se stesso da qui in avanti.
Ciò che in qualsiasi caso il corpo docente deve considerare come preminente è il rispetto dell’ecologia di vita e di relazione del bambino che a medio termine rifletterà le proprie componenti specifiche nel profitto scolastico e nel funzionamento globale educativo/apprenditivo della personalità in crescita.