Carla Colussi

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Siamo l’animale che narra

in Storia e Filosofia by

Una riflessione scientifica sulla peculiare necessità degli esseri umani di raccontare (e ascoltare) storie

Per molti anni ho fatto la contastorie. Giravo scuole e piazze raccontando storie. Ho sempre notato che il pubblico - sia quello dei bambini sia quello degli adulti - era stregato dalla narrazione. Io stessa ero affascinata dai contastorie. 

Per anni e a più riprese ho scritto e riflettuto sulla fascinazione della narrazione. I miei studi di Storia del Teatro e dello Spettacolo mi confermavano che la narrazione è trasversale a ogni cultura (un po’ come il Teatro di Figura, che siano burattini o ombre o marionette).

La narrazione appariva come fondamentale e necessaria per l’Uomo e non solo per la trasmissione di informazioni e tradizioni. Da qualche anno sappiamo che questa fascinazione ha un fondamento scientifico. Ma andiamo per gradi perché è un argomento oggetto di studi e aggiornamenti continui.

L’uomo è l’animale che narra. Siamo circondati di storie

I bambini inventano storie continuamente quando giocano: nelle case sugli alberi, nelle capanne e nei covi segreti, giocando “alle signore” e “alla guerra” (il gioco è narrazione), le storie stanno nei film, nella strada, nei mercati, nei tribunali, nei videogiochi e, ovviamente, nei libri.

Ma perché inventiamo, raccontiamo e ascoltiamo storie? Gli studiosi sono ormai unanimemente concordi nel sostenere che accanto all’evoluzione fisica c’è stata un’evoluzione del cervello in direzione delle storie; il fatto di essere l’animale che narra ha inciso sulla nostra evoluzione, sul modo nel quale il nostro cervello si è evoluto. La nostra passione per le storie ha plasmato il nostro cervello.

Bisogna essere cauti, lo dicevo prima, perché gli studi sono in continuo divenire e nonostante a noi piacerebbe ripercorrere la complessa strada delle neuroscienze e riallacciare le teorie letterarie alle scienze cognitive, è necessario avere cautela e procedere con lentezza, per evitare di piegare le teorie al nostro volere, come spesso accade.

Il nostro cervello è un processore di storie

Perché se Il nostro cervello, come dicono le neuroscienze, è un processore di storie e Il comportamento narrativo ha di fatto dato forma e fortemente condizionato lo sviluppo delle capacità cognitive dell’Homo Sapiens allora diventa affascinante studiare, per quanto è possibile, come tutto ciò sia accaduto.

Aprirebbe nuovi orizzonti anche negli studi sull’apprendimento; cosa che, di fatto, sta già accadendo. Per poter sapere come, quanto e quando i primi Homo Sapiens narrassero, abbiamo bisogno di ritrovamenti fossili. Se questo appare ovvio per i vari utensili, lo è meno per il comportamento narrativo; è proprio verro che non ci sono giunti i fossili del tale comportamento?

Michele Cometa, docente di Storia comparata delle culture e Cultura visuale presso l’Università degli Studi di Palermo, nel suo amplissimo e affascinante studio analizza la narrazione nel contesto della teoria dell’evoluzione e delle scienze cognitive.

Lo studioso parte dal legame tra la produzione di utensili (in particolare i bifacciali) e lo sviluppo di capacità narrative; narra come lo scolpire alcuni utensili, secondo una determinata catena operativa che prevede una coscienza dell’operato e una consapevolezza del Tempo e dei tempi, abbia influito sulla costruzione narrativa del mondo.

Gli studi sperimentali su questo tipo di procedure hanno dimostrato che le parti del cervello che presiedono alla scheggiatura sono le stesse parti che presiedono alla lingua, alla costruzione della lingua del mondo.

Entriamo in un campo di studi ancora in divenire e complesso che affonda le radici negli studi di antropologia, linguistica e soprattutto in una nuova disciplina: la biopoetica, ovvero la disciplina che si propone di far convergere scienze del bios e teoria letteraria nel contesto più ampio di uno studio del comportamento narrativo e della nicchia ecologica dell’Homo sapiens.

Le storie ci appartengono

Tutta quest’enorme quantità di studi complessi e multidisciplinari mi porta ancora una volta a riflettere su come le storie ci appartengano.

A cosa servono le storie e perché l’Homo Sapiens aveva e ha un comportamento narrativo? Sono solita dire, provocatoriamente, che leggere non serve a niente. Ma la mia è, appunto, una provocazione per cercare di pulire la lettura, soprattutto in alcune situazioni, dal didattismo. Tuttavia le storie sono servite all’Uomo – alla sua evoluzione – e se noi siamo l’animale che narra, un motivo evoluzionistico deve esserci. 

Jonathan Gottschall, professore di letteratura e teorico della letteratura statunitense e autore di L’istinto di narrare (traduzione di Giuliana Maria Olivero, Bollati Boringhieri, 2017), fa sue le teorie di Joseph Carroll e riduce il comportamento narrativo dell’Uomo a una sorta di simulatore di volo.

Così come il pilota usando il simulatore di volo si allena a volare, l’Uomo attraverso le storie si allena alla vita. Per questo, secondo Gottschall, le storie hanno uno schema fisso che vede il protagonista affrontare delle difficoltà incontrare un aiutante e risolvere il problema.

Insomma le storie ci insegnano a vivere e ad affrontare i problemi. A mio parere questa teoria è riduzionistica e fa della letteratura (che è il prodotto narrativo più recente dell’Uomo) una sorta di manuale.

Cometa va più a fondo e ci parla dell’antropologia dell’ansia. L’Uomo è l’unico animale che ha il senso del tempo e della finitezza. La mia gatta, che dorme di là al sole, ha paura della morte ma non lo sa.

Non si pone il problema della sua finitezza; risponde istintivamente ai pericoli. L’Uomo per motivazione legate alla struttura del suo cervello ha consapevolezza della propria finitudine e le storie e la narratività ci hanno aiutato a sopravvivere e ci aiutano a vivere, ma non perché ci consentano di inventare mondi finti ma per fare e dare ordine al Mondo.

L’Uomo narra per fare ordine

L’Uomo narra per fare ordine nell’Universo e per nominare il Mondo (Adamo nella Bibbia dà nome alle cose); senza quest’ordine non potrebbe sopravvivere perché sprovvisto di quell’istinto che sostiene gli altri animali. Trovo affascinante e bellissimo che questa funzione specie-specifica sia il nostro modo di stare nel mondo e di abitarlo (il nostro abito).

Concludo questa prima parte del mio contributo facendo mia una riflessione che Michele Cometa accenna alla fine dello studio citato. Prendendo spunto da alcuni scritti di Walter Benjamin tra cui un brano de L’Infanzia berlinese, lo studioso palermitano accenna al potere terapeutico della narrazione, in particolare della narrazione pre-verbale e gestuale.

E io non posso non pensare allo sciamano e al valore curativo della sua danza che è narrazione, al gesto curativo del dio e del sacro; attenzione, ho detto cura non medicina!

Dove stanno le storie oggi?

Leggere gli studi sull’animale narrante, sul cervello e sulla narratività nell’evoluzione mi ha portata a riflettere ancora una volta su dove stiano le storie oggi nella nostra società.

Mi sembra che, svuotando di storie il mondo, l’Uomo si sia ridotto a cercarle in altri luoghi meno curanti e svincolati dallo spirito; questo sta influendo moltissimo sui bambini che sembrano sempre più in balia di un razionalismo adulto e nichilista. 

Le citazioni in corsivo sono in Michele Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria, Raffaello Cortina Editore, 2017

Fare teatro a scuola, serve?

in Arte, Musica e Spettacolo/Attività di classe by

Fare teatro a scuola, ma farlo bene: perché, come diceva Rodari, “l’esperienza teatrale contiene gli elementi di una scuola nuova e vera […], liberata dal meccanismo burocratico.

Mi capita, talvolta, di trovare difficile scrivere sul teatro a scuola. Temo di dire cose scontate e ovvie, soprattutto perché prima di me a dirle sono stati dei grandi artisti e scrittori. Per questo motivo inizio questa mia riflessione prendendo spunto da un’affermazione di Rodari che sosteneva che il teatro doveva far parte della scuola non come attività pomeridiana extrascolastica (da ricordare che quando Rodari scriveva, la scuola finiva alle 12,30 e nel pomeriggio alcune scuole erano aperte per le attività extrascolastiche), perché:

L’esperienza teatrale, nel suo corso complesso, contiene gli elementi di una scuola nuova e vera, completamente sottratta a ogni schema artificioso, liberata dal meccanismo burocratico.

Gianni Rodari, Il mio teatro, a cura di Andrea Mancini e Mario Piatti, Titivillus edizioni, 2006

Ho sempre pensato che il teatro a scuola debba essere fatto durante l’orario scolastico e offrire uno spazio “altro” nel quale il bambino e/o il ragazzo possa esprimersi uscendo dai canoni della scuola e senza paura del voto.

Costruire un personaggio

Se Carletto (nome di fantasia) è il bambino considerato distratto, forse a teatro trova una sua dimensione, oppure il conduttore /conduttrice del progetto può “usare” questa caratteristica per costruire un personaggio. Attenzione non il personaggio del distratto (che vorrebbe dire bloccare Carletto in questo giudizio), ma un personaggio che abbia le caratteristiche di Carletto affinché capisca che la sua indole può essere anche positiva o la può usare per crescere. Qualche anno fa avevo un bambino molto silenzioso e dalla voce che era un filo, costruii per lui il personaggio del giardiniere che, innamorato della sua pianta, la cullava e le sussurrava parole dolci: fu un successo e lui ne uscì più forte.

Teatro come scuola di democrazia

La scuola oggi, come al tempo di Rodari, ha tempi che non sono a misura di bambino, nonostante le riforme e la marea di scritti e saggi e nonostante i molti e le molte insegnanti che si prodigano perché così non sia. I programmi non esistono da vent’anni, ma (quasi) tutti li rincorrono.

Il teatro è un spazio altro che però ha delle regole ferree pur nel suo essere profondamente creativo; questo lo rende un grande strumento educativo perché come diceva Munari:

Saper gestire un mezzo è il miglior modo per padroneggiarlo

e quindi essere liberi di creare, perché la libertà poggia sulla conoscenza. I limiti alla creatività, la fantasia che non vuol dire fare affermazioni a caso, il dover stare dentro regole per creare liberamente, sono gli strumenti che offriamo al bambino e al ragazzo quando facciamo teatro, che diventa scuola di democrazia.

Offriamo la possibilità di usare il corpo anche fuori l’attività sportiva così che sappia di averlo anche se non è un campione. Un corpo che deve muoversi in uno spazio definito, che deve sentire l’altro e esprimere e comunicare affinché chi ascolta e guarda, comprenda.

Imparare a stare insieme

Nell’esperienza teatrale il bambino o ragazzo deve stare attento perché è lui che sta sul palco non può delegare (alla maestra, ai genitori, al registro elettronico); è lui che sta lì, è lui responsabile di quello che fa e che dice; è responsabile per sé e per i compagni. Questo rende il teatro a scuola un’esperienza anche faticosa a volte difficile, si grida, si piange e ci si scoraggia, si discute. E si impara a stare insieme.

Infine nell’esperienza teatrale bisogna inventare e creare partendo da un’idea e collaborando con gli altri. Questo fa del teatro a scuola uno dei tanti semi che possiamo gettare per formare lettori e per fare scrittura.

Il “contenitore”

Una delle esperienze più divertenti che ho fatto negli anni con i ragazzi è stata quella di partire da un “contenitore” (io li chiamavo così) che io proponevo loro dopo aver conosciuto il gruppo e le loro energie. Faccio un esempio veloce: in una classe di 18 individui di cui 16 femmine e due maschi, proposi loro come “contenitore” un salone di parrucchiere nel quale si avvicendassero le clienti e persone di passaggio; i due ragazzi facevano uno il garzone del bar, concupito dalla parrucchiera, l’altro un postino. Ne venne fuori un lavoro su i tipi umani molto bello e parecchio ironico; ci divertimmo molto! 

Dopo questa esperienza l’insegnante riprese il testo teatrale, scritto sulla base di improvvisazioni e testi proposti dai ragazzi e da me, per elaborare uno scritto con la classe. 

Trasposizione teatrale di un romanzo

Un’altra esperienza che mi ha segnata in senso positivo è la trasposizione teatrale (tra-duzione) di un romanzo. Se la classe è giusta, è divertente e appagante. Anni fa con una quinta primaria (allora elementare) abbiamo messo in scena Le avventure di Pinocchio, in toscano e con solo qualche taglio. Lo hanno chiesto loro e io gli ho detto che Lorenzini non si taglia: o si fa in toscano o in un altro dialetto. Così fu in toscano.

Fu un lavoro enorme, io scrivevo anche in autobus per preparare le parti; i ragazzi hanno fatto un grandissimo lavoro su costumi e usi dell’epoca e ovviamente per dare una parte a tutti abbiamo giocato col romanzo e con l’autore perché io non posso vedere “recite” con una scena in cui Pinocchio è Giacomo (nome di fantasia) e in un’altra scena è Tommaso (nome di fantasia); questa pratica in teatro non esiste e non deve esistere neanche nel teatro scolastico, perché è un falso ed è come insegnare male la grammatica o le tabelline. Si creano altri personaggi, si immaginano situazioni possibili.

L’importanza dei professionisti del teatro

Ne Il fantasma di Canterville, Wilde parla solo della governante di Casa Canterville ma sicuramente ci saranno stati dei cuochi, dei giardinieri, le servette; nel paese in basso non c’era un postino? La signora Otis non aveva amiche? Insomma giocare con l’autore, creando personaggi plausibili anche basati su altre opere dello stesso. E così si fa scrittura, teatro, Storie, storia del costume e a volte anche educazione civica. E il bello sapete qual è? Che i bambini non se ne accorgono loro stanno giocando al teatro.
Certo è fondamentale che a farlo nella scuola siano professionisti del teatro perché l’esperienza non sia un ripetere parole su un palco.

Se ti interessa particolarmente il tema TEATRO A SCUOLA, ne abbiamo parlato in passato anche qui!

Foto di copertina by Yiran Ding su Unsplash

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