Confliggere è inevitabile?
Insieme a Giulia Lensi e Renato Palma parliamo di relazioni umane, chiedendosi se confliggere sia inevitabile o no.
Gli esperti dei Peace studies sostengono che i conflitti fanno parte della fisiologia delle relazioni umane (in pratica non è possibile “non confliggere”).
Se così fosse potremmo metterci l’anima in pace (scusate il gioco di parole) e pensare che il conflitto sia come il moto della Terra: è così e basta.
Poi viene da pensare che forse gli appartenenti a quel gruppo, solo qualche secolo fa, erano convinti, a ragione, visto che la maggioranza la pensava come loro, che la Terra fosse piatta e il sole viaggiasse su un carro.
Fatta questa breve premessa, occorre anche dire che una delle caratteristiche degli esseri umani a noi più care è il loro senso della possibilità, tanto che ci siamo inventati una serie di storie che hanno come protagonisti i Sissipole (in Toscana è così che si dice: sì, si può) ai quali dobbiamo la maggior parte delle scoperte e dei tentativi di miglioramento delle condizioni di vita. Il fuoco, le strade, le comunità, le case, l’infanzia, e chi più ne ha più ne metta.
Ci siamo immaginati che le condizioni di vita degli umani siano migliorate in questo modo. Una mattina, molti ma molti secoli fa, qualcuno (più probabilmente qualcuna) si sveglia e dice: “Ho dormito bene stanotte e ho fatto un bel sogno. Invece che sulla nuda terra avevamo organizzato un mucchio di paglia (l’idea che si potesse chiamare pagliericcio è successiva) ben delimitato sul quale dormire. Una meraviglia.”
Il bello dei Sissipole era che l’idea era immediatamente accolta con entusiasmo e con una riflessione: vediamo come si può fare.
Naturalmente non tutti reagivano nello stesso modo. Qualcuno, o forse la maggioranza, scrollava le spalle, scuoteva la testa, disapprovava l’idea e se ne andava pensando: le solite donne. Erano gli Unsipole (non credo sia necessario spiegare perché li chiamavano così).
Vedete, l’espressione che più ci ha colpito nelle affermazioni rispettabilissime dei Peace studies è che la logica conseguenza del considerare fisiologico il conflitto è che, in pratica, non è possibile non confliggere.
Chissà allora quante altre cose non sono possibili, oltre a non confliggere. Se è fisiologico non avere ali, allora non è possibile volare.
Ma volendo giocare al gioco dei Sissipole, ci siamo chiesti cosa succede se non consideriamo né come fisiologico, né come inevitabile il conflitto, inteso come confronto nel quale vien fatto ricorso all’uso della forza da parte di chi sa già di essere più forte (una questione di fair play, se vogliamo), cioè nel mondo dell’educazione.
Poi ci siamo chiesti quale sia il momento di spostare una relazione dal campo affettivo a quello conflittuale, nel caso della relazione totalmente asimmetrica che si instaura tra adulti e bambini, e in questo caso ci siamo dati una risposta: il prima possibile, questo suggeriscono gli educatori più seguiti, in modo da evitare di farsi prendere la mano.
E in un certo senso li capiamo. Se si tratta di confliggere, meglio mettere subito in chiaro chi comanda.
Allora forse – un forse naturalmente gigantesco, perché i Sissipole sono pieni di possibilità e quindi di dubbi – abbiamo pensato che non è detto che tutti gli esseri umani abbiano come caratteristica fisiologica l’impossibilità di evitare il conflitto.
Così non ci siamo lasciati condizionare dai molti che sono convinti che i conflitti facciano parte della “fisiologia delle relazioni umane” e che, pertanto, ritengono che non sia possibile non confliggere.
Abbiamo solo pensato che, forse, sempre forse, è da questa loro convinzione che fanno derivare l’approccio conflittuale, e la sua giustificazione fisiologica, e anche che per questo il conflitto continua a essere, per loro, il modo in cui scelgono di educare i loro figli (o sono obbligati dalla fisiologia?).
E se invece i conflitti fossero riconducibili alle modalità con cui si stabiliscono le relazioni umane, e venissero trasmessi attraverso l’esempio delle persone di riferimento (educatori e genitori, nonni e zii e così via), che sono certi che non si possa fare altrimenti e, ovviamente, non amano essere contraddetti?
Cioè: e se il conflitto si apprende dall’esempio, come la lingua e molti altri comportamenti?
In questo caso il conflitto diventa soltanto una risposta adattiva a una relazione basata sul conflitto fin dai primi momenti dell’accoglienza. Bene, il fatto che si possa imparare a essere, generazione dopo generazione, sempre più umani, è un’idea che ci piace molto, certamente che ci rende più liberi e quindi più responsabili: i nostri comportamenti dipendono dalla cultura che creiamo o alla quale aderiamo.
È vero, siamo molto ottimisti, e pertanto, come dice Guenassia, certamente abbiamo torto, ma noi abbiamo deciso di impegnarci in una direzione del tutto diversa.
Ci siamo svegliati una mattina e ci siamo detti: secondo te è possibile immaginare un mondo senza conflitti?
Ovviamente abbiamo risposto: Sissipole!
Per questo non consideriamo i conflitti fisiologici, a un punto tale che cerchiamo di non crearne le condizioni, soprattutto nelle relazioni in cui si trasmette la cultura, e quella forma meravigliosa e molto raffinata della cultura che si chiama affetto. In questo modo quando il conflitto fa parte della relazione lo consideriamo una fase transitoria, un deficit di cultura, frutto di quel modo di vedere che lo considera inevitabile, e finisce per renderlo inevitabile.
Potremmo tentare un esperimento, ci siamo detti. Per rendere il conflitto evitabile non alleviamo le nuove generazioni nell’idea che il conflitto sia inevitabile, solo perché è uno strumento che noi scegliamo di usare. Ci è parso ovvio pensare che se semini conflitto raccogli conflitto. Proviamo, invece, a verificare la possibilità di creare un mondo nel quale la relazione, almeno quella tra due esseri umani, può diventare il luogo nel quale sia facile non ammettere l’uso neanche di una dose minima di forza, e quindi di maltrattamento.
Questo ci impegna a trattare ogni essere umano, a prescindere dall’età, come uno che ha gli stessi nostri diritti a essere trattato bene, senza quelle deroghe che sembrano necessarie a educarlo. Che dire, forse litigare per educare educa a litigare? In questo modo non sentiamo, per cominciare almeno nella relazione educativa, l’esigenza di imporre il conflitto come inevitabile. Questo perché non vogliamo giustificare in alcun modo la nostra sordità ai segnali di arresto, e quindi la scortesia, la mancanza di gentilezza.
Il conflitto, per noi, non è mai qualcosa da trasmettere “a fin di bene” o da utilizzare se “porta a una crescita”. Solo cambiando il nostro approccio, possiamo evitare di far sperimentare ai nuovi arrivati il conflitto come normale, persino utile e fisiologico. Ovviamente si può eccepire che non tutti i litigi sono conflitti, e noi, per superare queste utilissime osservazioni, preferiamo parlare di uso della forza, che viene percepita come fatica.
Se l’educazione viene percepita come faticosa da chi educa e da chi è educato, è ovvio che si sta o usando la forza o resistendo all’uso della forza. In più, quando la forza entra nel tessuto della relazione ha come conseguenza la creazione di un sentimento che certamente non facilita lo stare insieme: la paura.
I bambini hanno paura dei loro educatori, così come all’inizio gli educatori avevano paura dei bambini. Paura significa non fidarsi. Non fidarsi obbliga a difendersi e dà una brutta piega all’affetto, che comunque fa parte dello scambio di esperienze. Si può volere bene e confliggere? Per molti la risposta è ovviamente sì. Ma la domanda dovrebbe essere: si può trattarsi bene e confliggere? Qui la risposta non è così immediata.
Il conflitto non è mai un modo di trattarsi bene, o di trattare bene.
Il conflitto rompe i legami di fiducia, genera paura e distanza, rende difficile la comunicazione, impossibile l’intimità. Allora, come sanno molti, anche nelle relazioni è meglio prevenire, se possibile, i conflitti e quelle forme di maltrattamento che generano sofferenza. Non dimentichiamo che stiamo parlando di relazioni di prossimità che sono la matrice della relazione con sé stesso.
Pertanto preferiamo chiederci come fare per evitare una sottovalutazione di qualsiasi uso della forza. È successo così.
Un’altra mattina qualcuno si è svegliato e ha detto: abbiamo già fatto tanto a inventare la scuola, la famiglia. Che ne pensi se troviamo il modo di rendere la scuola, e in generale la relazione educativa, uno spazio gentile?
La risposta potete immaginarla.
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Molti studenti, piccoli o grandi che siano, associano alla scuola una sensazione non gradevole. Spesso raccontano di convivere ogni giorno con l’ansia e con la paura di essere continuamente misurati, cosa che li porta a sentirsi non all’altezza di quello che viene loro richiesto o addirittura poco intelligenti.
Di contro molti docenti, anche quelli più disponibili a mettersi nei panni dei loro alunni, sono convinti che sia normale che le prove della vita, compresi compiti a scuola e interrogazioni, debbano creare un po’ d’ansia.
Alcuni affermano che, anzi, sia salutare il disagio che gli studenti lamentano, perché mette loro addosso la giusta tensione che li aiuta a mantenere la concentrazione.
Poi succede che qualcuno fa due conti e si accorge che ci sono studenti che soffrono di attacchi di panico, o si bloccano di fronte a un esame, o abbandonano la scuola. E questo succede sempre prima nel percorso che noi adulti abbiamo immaginato per aggregarli al nostro gruppo. C’è poi un altro piccolo problema: la scuola non è ancora un posto per noi.
È un luogo di noi e loro. Noi che ci lamentiamo della fatica che ci fanno fare loro. Loro che si lamentano della fatica che noi facciamo fare loro.
Il progetto della Democrazia Affettiva, che immagina la scuola come uno spazio affettivo nel quale sia possibile sperimentare quanto è bello e interessante fare, imparare e stare insieme, cerca di dare una risposta alla domanda di relazione che ci rivolgono i ragazzi e alla domanda di minore fatica che viene dai docenti nello svolgimento del loro compito.
Questa figura, che disegna un circolo virtuoso, spiega bene cosa succede di solito nella relazione educativa, ma propone anche un cambiamento fondamentale nel modo di stare insieme.
Nella maggior parte dei casi gli adulti partono dall’idea che una Buona Educazione sia la base per creare una Buona Relazione.
Quindi intervengono correggendo, indirizzando, dando regole, perché pensano che i bambini (e i ragazzi) vadano prima di tutto educati e che questo risultato debba essere raggiunto nel minor tempo possibile e senza nessun cedimento.
I bambini mostrano di non gradire quello che noi proponiamo loro. Noi pensiamo che piangeranno un po’, ma poi si abitueranno (visto che non hanno alternative).
In questo lavoro faticosissimo per noi, e doloroso per loro, si creano due effetti collaterali:
- Il primo è la rottura dei vincoli di fiducia.
- Il secondo è un attrito che inizialmente vinciamo con piccole dosi di forza, ma che nel tempo diventa paralizzante.
Il circolo diventa invece virtuoso se cambia il nostro punto di partenza (e si sovrappone a quello dei bambini, che manifestano fin dalla nascita un gran desiderio di stare con noi). Una delle regole che si dà la Democrazia Affettiva è che nessun obiettivo da raggiungere vale un peggioramento della relazione.
Se, attraverso scelte culturali, noi stiamo con i nostri giovanissimi e giovani compagni di apprendimento con pazienza, intelligenza e generosità, succede quello che vediamo nella figura, perché sappiamo che se il punto di partenza con loro è avere una buona relazione (che loro imparano attraverso l’esperienza diretta), il risultato sarà soddisfacente per tutti.
Infatti una buona relazione fa fare poca fatica, rende piacevole lo stare insieme, produce una buona educazione, fa sì che l’apprendimento sia piacevole per tutti.
* Codice identificativo MIUR: 31568 – https://sophia.istruzione.it
Articolo di Renato Palma, Lorenzo Canuti, Giulia Lensi, Anna Maria Palma, Gianni Spulcioni.
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