Raccontare la Shoah a scuola
Una riflessione sulla Shoah e sul bisogno di ricordare non solo le vittime, ma anche coloro che c’erano e non sono restati a guardare ma hanno aiutato, rischiando. O ancora, di coloro che invece hanno deciso di rimanere immobili.
Dice Matteo Corradini che c’è una bella differenza tra la Fatina dei dentini e un racconto della Shoah. La cosa può sembrare ovvia, però Matteo Corradini dice anche che, girando tante scuole e parlando di memoria con tanti studenti, tra la Fatina e la Shoah lui ha trovato alcune connessioni. Un paio di collegamenti che a me sono sembrati bellissimi. I bambini, per esempio.
In fondo, se ci pensate, i bambini sono gli stessi: un po’ più grandi quelli a cui diamo qualche particolare in più sulla Shoah, un po’ più piccoli gli altri, ma sono gli stessi. E allora è evidente che, dietro ogni cosa che riguarda i bambini e le bambine, c’è la cura che mettiamo nel raccontare. E anche noi siamo un collegamento. Forse più noi dei bambini.
Spesso ci siamo sentiti dire che bisogna ricordare per evitare che il passato si ripeta. Ricordare per evitare il ritorno del buio. Per me non è così, a me questa idea non ha mai convinto. La memoria non è un’assicurazione sul futuro e mi sembra che le prove di questa mancanza di automatismo, intorno a noi, non manchino. E allora perché è importante ricordare? Perché è importante che chi racconta il passato non smetta di farlo?
La mia personalissima risposta a questa domanda è un luogo fisico. Si chiama Villa Emma e si trova in un paese vicino Modena, Nonantola. Una villa come tante, ma che nel 1942 ha ospitato una settantina di bambini e ragazzi ebrei in fuga dalla Germania. E’ la storia di tutto un paese che ha aperto le porte delle case, dei negozi, dei fienili e anche del seminario, per nascondere gli ebrei. E’ la storia di un prete e di un medico che hanno stampato documenti falsi per farli fuggire. Ed è la storia, soprattutto, delle sarte che in poco tempo hanno cucito 40 cappotti, tutti uguali, per confondere le guardie con la parvenza di una gita scolastica.
Un racconto anomalo, straordinario anzi. Oggi, in diverse parti del mondo, i discendenti di quei bambini e di quei ragazzi si stanno organizzando per non disperdere il ricordo del coraggio che la popolazione di Nonantola dimostrò nel 1943.
Ecco, è questo il punto del ricordo, della memoria. Accanto alla tragedia dovremmo secondo me raccontare il coraggio, la responsabilità di chi ha visto, ma non ha lasciato correre. Di chi non si è voltato dall’altra parte. La Shoah non può restare, unicamente, la storia di chi ha subito lo sterminio: se così fosse le vittime resterebbero sole, ancora una volta. La Shoah è anche la storia di tutti gli altri, di chi c’era e ha fatto. Di chi c’era e non ha fatto. Di chi è venuto dopo e, sulla base di quell’esempio, deve decidere se fare o se restare a guardare.
Oggi i drammi sono altri, diversi, ma davvero così meno importanti?
Parlare del passato vuol dire assumere una responsabilità. Perché attraverso il racconto che facciamo, la prospettiva che di volta in volta assumiamo, proviamo a cambiare il presente. Soprattutto noi, quelli che raccontano. Quelli che lavorano con i bambini e le bambine.
Per la bibliografia: Matteo Corradini “Tu sei memoria. Didattica della memoria: percorsi su ebraismo e Shoah alla scuola primaria”. Erickson, Trento 2022.
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Foto di Eelco Böhtlingk su Unsplash
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Io lo so qual è il problema. Il problema è che a scuola a me piace organizzare una festa di Natale con tutti i crismi. I bambini con la maglietta bianca, il cappellino rosso e Imagine di John Lennon cantata sulla base musicale tirata giù da Internet. È tradizione. Sempre Imagine di John Lennon, guai a cambiare. L’anno scorso mi sono buttato su Astro del ciel e guarda com’è andata a finire: una iella pandemica che non ti dico. Astro del ciel porta male.
Ecco, il problema è che io, con le feste di Natale, faccio un pieno di bontà che mi basta per l’anno intero. Vedo i bambini lassù, sul palco, con le tonsille a bellavista e penso: “Ma sì, dai. In fondo l’anno prossimo andrà meglio. Possiamo continuare, così: il bene vincerà.”
E invece niente, quest’anno la festa di Natale non si può e ho la netta impressione che non ce la posso proprio fare con i buoni propositi.
Non senza le tonsille dei bambini che cantano Imagine di John Lennon.
Sarà un anno di cattiverie.
Farò le linguacce da sotto la mascherina, che dà tanta soddisfazione e non ti beccano neanche con il metal detector. C’è un sacco di gente che se le merita, le linguacce e poi ho gli arretrati: tutti gli anni che per colpa delle feste di Natale mi son tenuto buono. Quella maestra che mi riprende ogni volta perché dice che non posso tappezzare il corridoio con i cartelloni…
Anzi, no, ho un’idea migliore: insegno a far le linguacce da sotto le mascherine anche ai bambini, perché una linguaccia va bene, ma ventisei vanno ancora meglio.
E poi, pensaci bene: in classe, se uno interviene ma non alza la mano, mica lo sai chi ha parlato. Il più delle volte, io faccio finta, perché mi dispiace chiedere: “Eh? Che hai detto? Chi ha parlato?”.
Bella, la didattica in presenza, ma da quando non sono più buono, questa cosa di stare tutti insieme dietro una mascherina e non sapere che cosa dice l’uno o l’altro mi sembra un po’ come la Corazzata Potëmkin per Fantozzi. Lo scrivo? Lo dico? Ma sì, dai, che inauguro l’anno: una cagata pazzesca.
Allora, ho pensato che tanto vale insegnare ai bambini anche a fare le pernacchie, da sotto la mascherina, o a dire le parolacce. Così, quando passiamo per il corridoio, a quella maestra lì viene l’ulcera e per tutto il venti-ventuno ci lascia stare.
Poverina, però. La maestra non è cattiva… è solo che ha tanti problemi già di suo. Ecco, lo sapevo: subisco ancora gli effetti di bontà della festa di Natale del ’19.
Lo so, devo reagire. La scuola primaria è un terreno infido. Se cediamo noi, gli ultimi buoni che credono nella magia del Natale, resteranno solo loro: quelli che ti guardano storto per ogni passo dritto o rovescio che fai.
E allora sì, reagisco. Telefono ai genitori dei miei alunni, uno a uno. Telefono a quelli che, mentre io mi godevo, beato e rilassato, le canzoncine, le recite, se ne stavano al buio a far le riprese con il telefonino. Mi lascio per ultimo l’asso, il professionista, quel papà che viene tutti gli anni munito di due telecamere, una su cavalletto e una in mano. Tutta gente che si sarebbe potuta godere lo spettacolo in diretta, ma che ha preferito farsi venire un crampo per registrare i figlioletti in maglietta bianca e cappellino rosso che cantano Imagine di John Lennon.
Telefono, la dico chiara, e loro sono comprensivi. Bravi, i genitori, mica come certe maestre che conosco io. Mi mandano le riprese di tutte le feste di Natale passate ed esagerano, pure, perché ci aggiungono pure quelle dei fratellini e delle sorelline, dai tre ai quattordici anni. Tutte. Tutte, tranne quella dell’anno scorso con Astro del ciel. Lo sanno che abbiamo fatto un passo falso ed è ora di cambiare rotta.
Fate come me. Fate i buoni.
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Quando torneremo a scuola sarà tutto diverso
Quando torneremo a scuola sarà tutto diverso.
Quando torneremo a scuola. Sarà settembre, probabilmente, e troveremo i bambini un po’ cresciuti. Ho letto da qualche parte che la “Sindrome Italia” colpisce 80.000 badanti. Sono spesso persone, le badanti, che per assistere i nostri anziani lasciano i loro figli nel Paese di origine. Ovviamente questi figli nel frattempo crescono, fanno esperienze e così, quando la famiglia si riunisce, le madri scoprono quanta vita non hanno perso.
Ecco, quando torneremo, troveremo bambini molto cresciuti.
Avranno imparato molto, anche senza di noi; forse non le stesse cose, ma molto e tra questo molto ci saranno pure cose interessanti. Nulla a che vedere con la Sindrome Italia, ovviamente, ma avremo, tutti, l’occasione di capirle un po’ di più, le badanti, i loro figli e tutto quel pezzo d’Italia che diversamente ci lasciamo scivolare accanto. Non mi sembra poco.
Quando torneremo a scuola, sarà tutto diverso.
Ci verranno in mente le chat con le colleghe e i colleghi. Quelli che ci hanno scritto, ovviamente, ma anche quelli che non si sono fatti sentire. Ci sarà un solco, tra gli uni e gli altri e sarà un solco inevitabile e duraturo.
Perché la scuola è una comunità, certo, ma una comunità la valuti soprattutto nei momenti di crisi.
Allora saluteremo tutti, ovviamente, ma sapremo esattamente chi ci ha dato una mano e chi ce l’ha solo chiesta, una mano. E tutto questo scambio di mani sarà un piacere, dopo tutti questi mesi di paura. E neanche questo mi sembra poco.
Quando torneremo a scuola, sarà tutto diverso.
Torneremo carichi di applicazioni web. Avremo imparato a girare video, gestiremo un sacco di strumenti online, proprio come i famosi digital native. Lo sappiamo tutti che non esistono e che è solo un modo per dividere la popolazione umana tra chi fatica a fare una rampa di scale e chi corre la maratona.
Quando torneremo, non dico che sapremo fare tutti tutto, ma che sapremo fare un po’ di più, sì. E allora, quelli che corrono la maratona, digitalmente parlando, sentiranno il fiato sul collo e vedranno farsi sotto quelli che fino a poco prima faticavano anche a salire una rampa di scale. E li vedremo non proprio contenti di queste novità portate dal virus.
E questo mi sembra poco, ma mi è piaciuto scriverlo lo stesso.
Quando toneremo a scuola, perché torneremo prima o poi, sarà tutto diverso.
Vedremo i bambini scambiarsi le matite e percepiremo il pericolo. Vedremo i bambini venirci incontro per un abbraccio e anche lì percepiremo il pericolo. E a ogni colpo di tosse, a ogni starnuto percepiremo il pericolo, perché tra i danni del virus che ci tiene in casa in questi giorni c’è anche questo: un colpo all’idea che abbiamo dello stare insieme.
Non è poco, ma non è neanche tutto. Perché impareremo, magari, che il rispetto verso gli altri passa anche da una mascherina da indossare quando si ha il raffreddore. Non per proteggersi dagli altri, ma per proteggere gli altri.
Quando torneremo a scuola, ecco, forse posso dirla così, sarà tutto diverso se avremo imparato a proteggere gli altri. Restate a casa.
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Usare emoticon per valutare i bambini?
Scopriamo l’esperienza di Ivan Sciapeconi, che ha adottato delle emoticon al posto dei voti, per valutare i bambini del primo anno della primaria.
Una cosa l’ho capita: a scuola, meglio non parlare di emoticon. Quanto si arrabbia la gente se parli di emoticon! La cosa è andata più o meno così: due maestri di Modena (che poi sono Eva Pigliapoco e il sottoscritto) si sono messi in testa di valutare i bambini con le emoticon ed è venuto giù il mondo.
Colleghe e preside d’accordo, ci si mette al lavoro e si buttano giù le schede. “Be’, pure voi, come ci avete pensato!”, potreste dire, e io sarei pure d’accordo perché le faccine non c’entrano: quello che ci siamo messi in testa di fare è una cosa un tantino diversa. Ed è andata così…
Abbiamo dato una scheda ai bambini di prima (sei anni, e sottolineo sei). Abbiamo chiesto loro di compilarla. Anche noi abbiamo compilato una scheda, identica a quella dei bambini. Poi, e qui sta il bello, durante i colloqui del primo quadrimestre abbiamo invitato i genitori ad assistere al nostro colloquio con i bambini. Proprio così: colloquio bambini-insegnanti con invitati speciali i genitori.
Solo che, abbiamo pensato, se i bambini (sei anni, quattro mesi di scuola) si devono dare una valutazione, riescono a farlo con i voti? No, forse è meglio usare un sistema diverso, magari le faccine. Allora, mentre tu sei lì che cerchi di capire se hai centrato l’obiettivo, perché vedi che i bambini si stanno valutando, perché vedi che sanno esporre un punto di vista proprio e magari ti spiegano perché la faccina che hai messo tu è diversa da quella che hanno messo loro… proprio in quel momento, mentre tu vai alla deriva con una nuova visione della valutazione, ti sorprendi a riflettere sul profondo valore ermeneutico di quell’esperienza…
Proprio allora – quando ormai completamente perso nelle speculazioni sull’incontro della tua struttura epistemologica con quello dei tuoi alunni, e mentre pensi quanto tutto questo possa rappresentare un’euristica fondamentale nei processi di valutazione – arriva la trasmissione del mattino di un canale Mediaset.
Ora, se dovessi spiegare a un marziano che cos’è la televisione del mattino di un canale Mediaset, non credo che ci riuscirei. Me la cavo con i disturbi di apprendimento, con i bambini che non danno i pizzicotti ai compagni, ma spiegare che cosa sono le trasmissioni del mattino, specie su Mediaset, stenderebbe al tappeto chiunque.
Comunque, scopro che sono uno dei pochi a non guardarle, quelle trasmissioni lì, perché in meno di mezzora mi impazzisce Whatsapp in tasca. Poi, certo, sono arrivati tutti gli altri, pure i giornalisti che sanno fare il loro mestiere. Solo che una cosa l’ho capita: faccine no.
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“L’impronta genetica” di Robert Plomin: il maestro Ivan dice la sua
Non proprio una recensione, ma di sicuro una analisi ironica quanto puntuale: Ivan Sciapeconi racconta a modo suo il saggio di R. Plomin (Raffaello Cortina Editore)
E anche il Ponte di Ognissanti è passato. Cosa c’è di meglio che una buona lettura per darsi la carica e rientrare? Qualcosa di motivante, qualcosa che dia la spinta per un nuovo inizio… In libreria trovo “L’impronta genetica” di un tale Robert Plomin. Due righe di biografia e il tipo pare importante. Leggo la quarta di copertina e l’abstract parla di scoperte scientifiche recentissime che dovrebbero portare a bei cambiamenti, a scuola. E poi Raffaello Cortina è una casa editrice seria. Lo compro. Già a pagina 80, Plomin tira giù dati e ricerche come non ci fosse un domani e i risultati convergono su questo dato: il 60% del rendimento scolastico è determinato dai geni. Non dice che la scuola è inutile, attenzione. Dice che è importante, ma a livello statistico, il successo scolastico è per il 60% in mano a qualcun altro. Faccio due conti: tra la metà di settembre e l’inizio di giugno -mi dico- incido per il 40% sul rendimento dei miei alunni. Faccio come a sette e mezzo: sto.
E sbaglio, perché quel 40% lo devo – statisticamente, si intende- ripartire tra scuola, famiglia e “ambiente non condiviso”. Ora, la famiglia lo sapevo, ma questo “ambiente non condiviso” mi esce un po’ da un fianco. Eppure, giura Plomin, è proprio “l’ambiente non condiviso” che la fa da padrone: gli incontri casuali, le esperienze non programmate, il caso. Per essere uno che cercava una lettura un po’ motivante penso di aver toppato. Chiudo il libro. Controllo se da qualche parte ho uno Sveva Casati Modigliani o Storia della Massoneria di Roberto Gervaso. Niente. Mi arrendo e torno a “L’impronta genetica”.
Le scuole con i migliori risultati, dice Plomin che è inglese e vive in un Paese in cui l’autonomia scolastica c’è ed è viva, sono semplicemente quelle che attirano gli studenti con un patrimonio genetico già selezionato. Se prendi i singoli studenti, invece, i migliori delle scuole peggiori sono sicuramente migliori della media degli studenti delle scuole migliori. Perché? Perché è il DNA a fare la differenza, mica la scuola o la famiglia. E qui Plomin mi torna a guadagnare dei punti. Sapere che c’è un Brown qualsiasi, in una scuola sgarrupata di Manchester, che da solo supera quelli della scuole del centro di Londra, a me fa simpatia. Quasi quasi ci ripenso. Quasi quasi lo consiglio, questo “L’impronta genetica” di Robert Plomin professore di Genetica del comportamento presso l’Institute of Psychiatry, Psychology and Neuroscience del King’s College di Londra. In fondo, se ammettiamo tutti che non siamo falegnami o giardinieri, se ammettiamo che il nostro mestiere non è piallare, modellare, potare, forse ci guadagniamo tutti. Potremmo scoprire che il nostro mestiere è più o meno guardare negli occhi i bambini e aiutarli a diventare il meglio di quel che sono.
Bocciatura sotto esame: promossa o rimandata?
Ivan Sciapeconi, docente di scuola primaria, tra dichiarazioni di esperti e quotidiani disastri, riflette sull’utilità (o meno) della bocciatura e sul ruolo della scuola. A modo suo
Prima ha cominciato Crepet, lo psichiatra, e ha detto una cosa un po’ semplice, alla portata di tutti: a scuola bisogna tornare a bocciare. A chi tocca tocca e giù legna. Sarà per la posa un po’ charmant, sarà perché è sempre in televisione, ma Crepet è uno che si fa seguire e ho sentito un sacco di gente confortata da quello che ha scritto.
Poi è toccato a Recalcati, lo psicanalista. Se possibile, Recalcati è ancora più charmant di Crepet e come Crepet se n’è uscito con una storia tipo che la scuola deve tornare ai tempi che furono: lezioni frontali a tutte le ore. Chi c’è c’è e giù legna. Anche Recalcati ha confortato un bel po’ di gente che conosco e mi è venuto da pensare che gli psicologi hanno questo di bello: confortano.
Ora, per una pura coincidenza, durante tutto questo dibattito sulla bocciatura, ho avuto a che fare con un idraulico per una storia di carte bollate. Una roba messa lì per vedere se sai risolvere problemi. Lui, l’idraulico, è un ragazzo a posto. Lo dico subito, uno piuttosto sveglio. Ha avuto qualche brutta esperienza con la scuola, ma può capitare e a lui è capitato. Detta con le parole degli psicologi charmant è stato bocciato. La prima volta. La seconda, invece, non si è lasciato incastrare e ha cambiato scuola: ha abbassato un po’ le aspettative. Va da sé che, se cambi scuola, cambi amici e abbassi le aspettative a sedici anni, l’autostima frigge ad altissime temperature. È andata così, al mio amico idraulico.
Poi, con l’autostima fritta, ha mollato tutto ed è andato a lavorare. Senza sapere l’inglese, senza saper interpretare una legge, senza riuscire a compilare una certificazione, senza riuscire a calcolare una percentuale con sicurezza. Normale, diranno gli charmant: se non riesci a studiare vai a lavorare. Però, ironia della sorte, proprio di questo aveva bisogno il mio amico idraulico per non naufragare tra le carte bollate: calcolo di percentuali, interpretazione di testi complessi (normative), traduzione di un breve testo di inglese, ricerca di risorse online.
Io non lo so come funziona il mondo degli charmant perché un po’ mi sfugge, ma qui da noi può capitare di aver bisogno di un idraulico, un imbianchino o un parrucchiere. Quindi, se ci pensi, qui da noi è abbastanza importante che i parrucchieri sappiano qualcosa sulla chimica dei prodotti che ti mettono in testa. È abbastanza importante che la scuola faccia il suo dovere, magari per far capire agli alunni che la “qualità” è importante. Così, se uno da grande va a fare l’imbianchino, riflette sulla “qualità” della vernice da metterti in casa e tu eviti di respirare schifezze per anni. E poi, sì, è abbastanza importante che la scuola riesca a insegnare come scrivere le carte bollate, anche nel caso in cui uno si trovi a fare l’idraulico.
Ecco, un po’ questo e tanto altro ancora dovrebbe fare la scuola. E bocciare un povero Cristo non so come possa aiutarci, tutti quanti.
Che busta scegli? Tempo di concorsi, maturità, errori e risposte efficaci
Dalle 24 ore per organizzare una lezione al concorso docenti ai 60 minuti dove ti giochi la maturità. Il maestro Ivan non perde tempo: ecco le sue riflessioni
Allora, la cosa va così. Io ho un nipote che ha sette anni e che di punto in bianco mi chiede: “Ma l’infinito è pari o dispari?” Inizio a rispondere più o meno con parole di buonsenso, le parole di uno zio che si trova a costeggiare al baratro della matematica, ma sul più bello mi fermo perché ho l’impressione che la domanda sia molto più competente della risposta. Non è una bella sensazione, specie se sai l’immensa fiducia che il nipotino ripone nelle tue risposte. Ci vorrebbe un aiutino da casa, che so, una telefonata. Non squilla il telefono nel senso canonico, ma arriva un bip di Whatsapp. È una collega che mi chiede una mano per il concorso. Già, il concorso. Guardo negli occhi il nipotino che attende una risposta definitiva sull’infinito (matematico) e mi perdo dietro la siepe (poetica) del concorso docenti
Metto in stand by la matematica, d’altra parte mio nipote è molto tollerante con me, e provo a ragionare sul quesito della collega. Per chi non lo sapesse, il concorso oggidì funziona così: estrai una domanda e hai ventiquattr’ore di tempo per organizzare una lezione. Ventiquattr’ore, ai tempi di Whatsapp, è un tempo infinito, appunto. Il nipotino mi guarda da dietro gli occhiali e sembra domandarmi, severo: “E adesso che fai? Suggerisci?”. Mi vien da pensare che la collega non abbia scritto solo a me, ma abbia esteso l’SOS a tutti quelli che portano i capelli bianchi: è colpa lieve -me la gioco così – condivisa con tanti. Sì, dai, diamo una mano. Voglio bene alle mie colleghe, io. Apro il computer, sicuramente ho qualche file già pronto da passare, tutto sta a trovarlo.
Solo che c’è questa strana abitudine, questo modo di iniziare da Facebook prima d’ogni altra attività. Una scrollata, giusto per vedere quello che combinano gli amici. E così, tra la foto di un gatto e un piatto ben guarnito, mi ritrovo a leggere le considerazioni di un ragazzo che ha appena sostenuto la prova orale dell’esame di maturità. Già, la maturità. Per chi non lo sapesse, la prova orale dell’esame di maturità funziona così: tu arrivi, scegli una delle tre buste e parli per un’ora di quell’argomento lì, quello secretato dentro la busta. Un argomento che non sai, un argomento che non hai mai studiato, ma che ti deve servire per intavolare una discussione colta, brillante, possibilmente sicura.
Mondo cagnolino, non ho mica il coraggio di alzare lo sguardo. Sono sicuro che, negli occhi del nipote matematico, leggerei tutte le domande del mondo, altro che infinito. “Ma come”, questo sta pensando il piccolo, ne sono sicuro. “A voi gente grande e grossa danno un giorno intero per prepararvi e a questi pischelli appena spuntati li costringete a buttar giù un ragionamento in quattro e quattr’otto? Vi piace prendervela con i più deboli o che cosa?”.
Con le spalle al muro, prendo il coraggio a due mani e provo a cavarmela con la sincerità. È sempre la miglior cosa, la sincerità. “L’infinito”, dico, “non è pari o dispari, ma positivo e progressivo. Perché è la soluzione che ogni generazione dà agli errori della generazione precedente”. Ecco, l’ho detta, e il mio nipotino sorride, sdentato. Ha capito. Ha capito tutto. Non può essere diversamente.
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La telecamera in classe è davvero una buona idea?
La riflessione del maestro Ivan sull’ultima novità in fatto di sicurezza: la telecamera in ogni classe un po’ ci sta. Però a pensarci bene…
Quando ho sentito questa cosa della telecamera nelle scuole, mi sono detto: “un po’ ci sta”.
In un Paese che non si fida più dei politici, di quelli che vengono da fuori e che guarda con un po’ di sospetto anche chi ha un mega curriculum, perché ci si dovrebbe fidare degli insegnanti?
Così, quando ho letto che dopo gli asili e le scuole dell’infanzia le telecamere dovrebbero essere accese anche nelle classi dei più grandi, mi sono detto: “un po’ ci sta”, specie perché dovrebbero servire per difendere prof. e maestri dalle aggressioni di studenti e genitori.
Per quanto mi riguarda, a parte la scocciatura di vestirmi da fighetto tutti i giorni (perché se so che c’è una telecamera in giro, un po’ ci tengo a non fare brutta figura), per il resto non ho problemi con le telecamere, io. Non voglio dire di trovarmi a mio agio, ma un po’ di spettacolo posso pure farlo.
Solo che questi signori che hanno pensato di mettere le telecamere nelle scuole son tutte persone che hanno dimenticato i detti antichi, quelli di una volta. Prova a seguirmi.
Il genitore è a casa o al lavoro o per strada e dà un occhio al telefonino per vedere quel che succede a scuola. A questo punto, il povero genitore, magari un papà, vede il proprio figliolo alzar la mano e prendere la parola:
“Ieri mio papà ha dormito sul divano e la mamma ha pianto. E tanto, anche.” Son cose che capitano. Sì, certo, il papà può dormire sul divano, poverino, ma capita soprattutto che i bambini raccontino tutto quel che succede a casa.
Il segreto familiare non esiste, a scuola. I bambini depositano sulla cattedra dei maestri intenzioni di voto, giudizi sui vicini, evasioni fiscali, truffe anche solo immaginate, piccole diatribe e grandi guerre. Fortuna che a scuola ci sono i maestri, gente seria e capace di filtrare.
Per tornare ai detti di una volta, quello che i signori delle telecamere non hanno preso in considerazione è che “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”.
Tu pensi un modo per controllare quello che succede in classe e ti ritrovi in mano uno strumento per sputt… (sì insomma hai capito) la famiglia: la mamma ieri è tornata a fare la ceretta dopo mesi perché esce con le amiche e il papà non l’ha presa bene (o viceversa, non vorrei essere accusato di sessismo).
E non pensare che basti togliere l’audio: come controllare la pressione psicologica, la violenza verbale? Come fidarsi pienamente del cinema muto?
Ecco, la conclusione è banale, ma come tutte le cose banali di tanto in tanto va ricordata perché la gente dimentica facilmente le conclusioni banali e i detti antichi.
La crescita è una grandiosa manifestazione di fiducia. Nessuno è mai diventato realmente grande sotto lo sguardo indagatore delle telecamere, degli educatori, dei genitori. Tu dai fiducia e il bambino ti torna a casa con l’esperienza, il confronto, l’elaborazione di un punto di vista diverso.
La fiducia è il più grande antidoto alla paura e forse per questo fa così paura.
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Dei ragni, dei fantasmi, o magari del compito in classe di matematica: tutti noi abbiamo paura, e parlarne con gli
Io, maestro, che scrivo (anche) libri di testo
La riflessione di Ivan Sciapeconi, maestro e autore di sussidiari, in un’Italia nella quale una persona su dieci in casa non ha nemmeno un libro (fonte dati: Istat).
Cosa fa un maestro in mezzo a tante maestre?
Ivan Sciapeconi è un insegnante di scuola primaria. Cosa significa essere un maestro oggi? Ce lo racconta con garbo e ironia.
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Rientro a scuola: la borsa dell’insegnante!
Con l’apertura del nuovo anno scolastico, si torna tutti in classe! Ecco tanti piccoli suggerimenti per trasformare la borsa di