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Creare un bestiario immaginario: la fantasia come strumento sovversivo

in Attività di classe by
Creare un bestiario immaginario: Marianna Balducci ci propone un’attività in classe che unisce fantasia, disegni e fotografie.

Spesso mi è capitato di parlare dei disegni come di “dispositivi parlanti”, inneschi capaci di generare discorsi nuovi. Mi piace generare questi inneschi partendo dall’osservazione del quotidiano a noi più prossimo, per dimostrare che la fantasia può essere uno strumento sovversivo potente. Non serve complicare: basta spostare il punto di osservazione. Dare nuovi pesi agli elementi che ci avevano permesso di identificare l’oggetto protagonista delle nostre incursioni come una certa cosa, fatta in un certo modo.

Gianni Rodari lo definiva “entrare nel mondo non attraverso la porta principale, bensì da un finestrino” (che è più divertente, specificava). E lo metteva in pratica con le varie declinazioni del suo binomio fantastico, inventando omini di vetro o palazzi di gelato.

Ma per generare le storie, per far funzionare l’innesco, la capacità di osservazione e analisi sono fondamentali.

Solo interrogandoci su come sia fatto il cristallo troviamo un posto a “Giacomo di Cristallo” (“Libri della Fantasia“), condannato a mostrare i suoi pensieri a tutti, ma anche a risplendere per il suo eroico destino.

“Analisi merceologica e analisi fantastica coincidono quasi perfettamente”, scrive Rodari (“Grammatica della Fantasia”). In una sorta di altalena necessaria per far sì che anche i più piccoli si approprino del reale e lo possano trasformare a loro piacimento.

Allora per esercitare la fantasia dandoci una pista, ci tornano utili i testi dotati di una struttura ordinata, quelli da cui possiamo prendere spunto: le enciclopedie, i dizionari, i bestiari.

I bestiari

Dal medioevo i bestiari vengono compilati non solo per catalogare le varie specie, ma soprattutto per raccontare comportamenti e addirittura sentimenti (usando allegorie, metafore, ecc.). Ne è un esempio il “Bestiario amoroso” di Richard de Fournival.

Ma l’astrazione può spingersi ben oltre la volontà di educare o divulgare e arrivare alla realizzazione di capitoli estremi, come quelli riccamente disegnati e scritti in lingua illeggibile del “Codex Seraphinianus” di Luigi Serafini.

Ma cosa succede se, per comporre il nostro bestiario immaginario, mettiamo in scena i meccanismi fantastici descritti da Rodari attraverso l’aiuto della fotografia?  

La fotografia è un’alleata preziosa: ci permette di registrare, catalogare, catturare le porzioni di realtà in tutta la loro sfacciata contingenza. Se abbiamo a che fare con gli oggetti, fotografarli isolandoli su sfondi neutri è il modo canonico per archiviarli in un inventario, con informazioni utili per conoscerli e riconoscerli.

Se contaminiamo queste immagini con il disegno per dar loro un senso nuovo, stiamo letteralmente corrompendo il sistema. Stiamo hackerando la realtà, insinuandoci in piccoli spazi vuoti per riempirli di possibilità.

Innanzitutto, per comporre la nostra “nuova fauna”, saremo costretti a verificare quanti animali sono già immagazzinati nel nostro archivio mentale. Se so come è fatto un narvalo, allora potrò riconoscerlo osservando il picciolo di un massiccio peperone ribaltato sul tavolo.

Consiglio di partire da un repertorio di oggetti fotografati già stampato e svolgere la fase di raccolta e osservazione a distanza di qualche giorno. Non dobbiamo trovare cose che somiglino palesemente a degli animali, dobbiamo raccogliere e soltanto dopo osservare quelle cose per vedere quel che ci suggeriscono.

Fotografare su sfondo bianco aiuterà a visualizzare meglio gli spazi vuoti sui quali intervenire (con matite, pennarelli, tecniche pittoriche a discrezione, l’importante sarà l’idea).

Per agevolare il lavoro di trasformazione bestiale, si potranno anche osservare alcune foto collettivamente, scrivendo alla lavagna gli spunti che emergeranno. Ciascuno poi lavorerà su un proprio nuovo animale, disegnandolo ma anche scrivendo le sue peculiarità.

Alcuni pensano che la combinazione tra disegno e fotografia (un ulteriore livello di lettura dei codici visivi) confonda i più piccoli. Ma è esattamente l’opposto.

Chi possiede già un proprio bagaglio di immagini (e noi iniziamo a costruircelo inconsciamente fin da piccolissimi) saprà perfettamente “stare al gioco”.

Aiutiamo piuttosto il pensiero a giocare con questa altalena in modo sempre più ricco e interessante e procediamo elencando tutte le proprietà dell’oggetto fotografato. Poi trasformiamole in caratteristiche del nuovo animale.

Quel groviglio di fili e auricolari è intricato, gommoso, dotato di altoparlanti, capace di condurre corrente e onde sonore. Una pecora elettrica che, invece di stare in silenzio come le altre del gregge, non può fare a meno di far sentire la sua voce, di captare segnali nuovi, di reagire alle scosse.

E quest’altra invece? Lei è una pecora nera, anzi, scusate, mora. Perché? Non c’è bisogno di dare tante spiegazioni: semplicemente, col suo manto, invece dei maglioni ci faremo marmellate. 

(Nota: la pecora elettrica è nata per sostenere l’omonima libreria romana incendiata per ben due volte e impegnata in una coraggiosa lotta per presidiare con la cultura il quartiere di Centocelle).

Giochiamo con i ritratti scomposti

in Arte, Musica e Spettacolo/Attività di classe by
Una galleria di ritratti scomposti piena di tanti personaggi fantastici ed emozioni!

Chissà quante volte ci è capitato di imbarazzarci un po’ davanti all’obiettivo quando stavano per farci una foto. Anche se siamo disinvolti, non è scontato prendere subito confidenza con l’occhio fotografico, specialmente se siamo i soggetti di ritratti, di immagini che dovrebbero quindi coglierci a pieno e, in qualche modo, metterci al centro di un ideale palcoscenico, davanti a tutti.

Chi siamo quando veniamo fotografati?

Siamo un po’ noi e un po’ no. Siamo quello che abbiamo voluto mostrare e quello che non siamo riusciti a nascondere. Siamo quello che, a volte, nemmeno sapevamo di essere… ma che il fotografo ci ha rivelato.

Il ritratto fotografico non è solo un genere, è il frutto di un certo tipo di sguardo rivolto verso l’altro, a caccia di espressioni e peculiarità che rendano quel volto interessante. Quando guardiamo il ritratto fotografico di uno sconosciuto ci viene spontaneo iniziare a immaginare chi sia, che gusti abbia, cosa stia provando in quel momento. Iniziamo a familiarizzare con un’intimità immaginata, proprio come faremmo col personaggio di una storia.

Con la nostra ormai consueta pratica di mix tra disegno e fotografia, proveremo questa volta a giocare coi ritratti, mettendoci in scena come veri e propri personaggi, e lasciando che il disegno ci aiuti ad abbandonare le inibizioni e soprattutto a suggerire nuove storie.

Al bando le espressioni fisse e imbarazzate, esorcizziamo la compostezza (soprattutto quella che siamo comunque costretti a praticare, restando a distanza di sicurezza in questi mesi) e cimentiamoci nei ritratti scomposti! Ci trasformeremo in facce completamente nuove, ci mescoleremo i connotati, li ridisegneremo letteralmente per interpretare un ruolo nuovo e posare senza paura davanti alla macchina fotografica o al cellulare dei nostri compagni.

Non è la prima volta che vi invito a indossare quella che, in fondo, è una maschera ma, se in precedenza abbiamo chiamato in causa le maschere tribali e il loro potere evocativo, stavolta ci sarà più utile pensare a quelle del teatro antico.

Dal teatro greco al teatro Noh giapponese, le maschere avevano il compito di rappresentare le emozioni dei personaggi per renderli riconoscibili e leggibili anche a una certa distanza. Che ci fossero dietro uomini o donne non aveva più importanza, il personaggio diventava il fulcro assoluto dello sguardo, tragico o comico che fosse. Nel teatro giapponese addirittura era il modo in cui la luce ricadeva sui profili intagliati della maschera a generare le sfumature della messa in scena.

Come creare le nostre maschere

Proprio come nel teatro, anche nel nostro caso sarà importante esagerare quando affronteremo il primo step ovvero disegnare su uno o più fogli, con un pennarello nero, i connotati dei nostri personaggi. Esatto, non disegneremo maschere complete ma paia di occhi, compilation di labbra, collezioni di nasi: potete dedicare un foglio A4 a ogni pezzo (un foglio per gli occhi, un foglio per le labbra, uno per i nasi).

L’accortezza sarà non disegnarli troppo piccoli perché dovranno sovrapporsi ai nostri (se invece esagerate coi volumi, l’effetto sarà molto divertente!).

Vi lascio qualche foglio disegnato da me che potete stampare e usare per fare delle prove, se non sapete da dove cominciare. Occhi mostruosi, occhi dolci, occhi pazzi, labbra felici, bocche boccacce, nasi importanti, becchi adunchi…

Si potrà decidere anche di disegnare e poi fotocopiare, mescolare e infine distribuire casualmente i fogli con cui giocheremo. I singoli elementi andranno poi ritagliati (non è necessario essere troppo precisi, l’effetto finale sarà un po’ cubista ma comunque efficace) e dovremo scegliere finalmente quali indossare!

Basterà un po’ di nastro adesivo di carta (delicato sulla pelle e comunque da tenere per pochi secondi) da arrotolare dietro ai singoli pezzi che andremo a posizionare sulla nostra faccia… alla cieca! Niente buchi per gli occhi, il rischio di attaccarci sul viso occhi storti e nasi sghembi farà parte del gioco. Sarà lo scatto fotografico a rivelarci quale personaggio abbiamo messo in scena dopo il nostro collage pazzo.

E adesso… fotografiamoci!

Ci si fotograferà a turno (o con la complicità dei grandi coinvolti) e il mio consiglio è di convertire poi le foto in bianco e nero: il bianco e nero neutralizza quanto resta dei nostri connotati reali e ci aiuta a concentrarci sulle forme e sui nuovi segni che il viso ospita. Ne uscirà una galleria di ritratti scomposti a cui dovremmo naturalmente attribuire nomi, titoli e didascalie che potranno poi diventare protagonisti di storie tutte da scrivere o di una mostra di classe.


Approfondimento

Se ti interessa l’argomento e vuoi approfondire con degli strumenti, abbiamo pensato a una selezione per te.

Le classi del “Gnente” e la didattica passiva della scuola italiana

in Scuola by
Cosa può fare un Dirigente Scolastico per favorire evoluzioni didattiche?

Sul numero di domenica 18 agosto 2019 de L’Espresso appare un articolo a firma di Susanna Turco dal titolo “Francoforte-Roma e ritorno: l’anno spericolato della prof nelle classi del Gnente”, sottotitolo: “Quarant’anni, laurea in filosofia, Ottavia Nicolini (figlia di Renato, l’inventore dell’Estate romana) dopo un decennio in Germania è stata richiamata come docente “potenziato”. Ecco la sua esperienza in un istituto al confine della Capitale”.

Da futuro dirigente scolastico mi sono posto il problema delle ore di potenziamento, che ritengo simili a quelle di Attività Alternativa all’Insegnamento della Religione Cattolica e, pure, a quelle nelle quali l’insegnante di sostegno “sostituisce” la/il collega di posto comune. Si tratta di tre situazioni nelle quali l’ambiente, cioè gli studenti, abituati a didattiche direttive e frontali, si sentono largamente autorizzati a non fare niente. Nell’anno in cui sono stato insegnante di Attività Alternativa in una classe formata da persone a me sconosciute e sulle quali “non avevo alcun potere”, sono riuscito a fare un paio di lezioni. Poi lo sforzo sarebbe stato immane e ho dovuto ripiegare sullo studio assistito nel quale era ampia la possibilità del dolce far niente. Da insegnante di sostegno è stato più semplice “prendere il potere”. Qualche volta perché ero “insegnante misto” e quindi, semplicemente, ho fatto la mia materia. Più spesso perché nel corso delle lezioni in compresenza avevo comunque costruito la mia immagine di insegnante nei confronti degli studenti. Sia chiaro che anche da insegnante di matematica mi è stato difficile entrare in una mia classe in un’ora di assenza improvvisa di una collega e fare la mia materia,. Le lamentele sono forti e negli ultimi due anni credo di esserci riuscito non già perché “sono un bravo insegnante”, ma perché per un anno sono passato al ruolo di vice preside che, fornendomi di un investimento gerarchico, ha alterato della grossa, a mio vantaggio, le percezioni degli studenti.

Nella scuola italiana, tuttavia, non tutti possono essere nominati vice presidi, non tutti sono grandi e grossi (non è indispensabile né necessario, ma aiuta), non tutti sono esperti, radicati e strutturati (idem), quindi abbiamo un problema di sistema perché tante ore sono buttate letteralmente via e ciò che si assicura a scuola è la mera vigilanza. Mera vigilanza significa vilipendere tutte le belle parole che descrivono la professionalità docente nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro che, di fatto, si riduce a garantire tutele molto basse nella piramide di Maslow.

L’articolo che nel presente intervento sostanzialmente commento, nel descrivere l’esperienza di un’insegnante di filosofia assegnata in un istituto tecnico (ci sarà bisogno di “educazione filosofica” nei tecnici? io penso di sì), rientrata in Italia grazie al potenziamento della Legge 107/2015, mette in evidenza alcune deprimenti differenze tra il sistema passivizzante italiano e il sistema attivistico tedesco.
È necessario citare un breve passo dell’articolo:

In aule che, a dispetto di quanto ci si aspetterebbe, sono assai più fredde di quelle di Francoforte («la maglia di lana mi è servita a Roma, non in Germania»), l’inizio di qualsiasi ora di lezione era, anzitutto, un rotondo no. Assolutamente no. «La prima difficoltà era farsi ascoltare, superare quel rifiuto, rompere il muro del niente. In Germania, soprattutto se sei un docente italiano, nell’anno di affiancamento che è previsto ti insegnano a superare il metodo della lezione frontale: quella in cui tu parli e gli studenti stanno zitti e ascoltano. I tedeschi pensano che l’Italia sia didatticamente più indietro di quanto non siamo in realtà, ma è vero che quel metodo la scuola italiana, almeno quella che ho visto io, non l’ha ancora davvero abbandonato. E va anche detto che io stessa, dopo anni nelle scuole tedesche non vedevo l’ora di tornare al metodo frontale: zitti e ascoltate, basta con questa interazione». Però poi, abituata a classi curiose e aperte agli stimoli, ha ritrovato l’oppositività italiana. «Un’opposizione fortissima a qualsiasi proposta fuori dall’attività scolastica, quella che prevede che tu stia fermo ad ascoltare la lezione, oppure che giochi col cellulare durante le pause. A un certo punto, a caccia di attività terze, ho provato a far costruire una playlist a una classe: ognuno indicava la sua canzone preferita, poi si votava, alla fine avremmo ascoltato le prime tre classificate. Un modo per fare stare insieme i ragazzi che li ha pure entusiasmati. Ma è stato difficile gestire anche quello». Si dice che chi si ama si ascolta, là era persino difficile accettare che qualcun altro aprisse bocca. «I ragazzi parlavano sopra, non rispettavano i turni, non sapevano collaborare. Uno magari per l’entusiasmo saltava in piedi sopra il banco, un altro faceva partire una cassa bluetooth grossa come un bollitore nascosta sotto un mucchio di cappotti, un altro lanciava in aria il telefonino. Complessivamente, ho trovato studenti che rispondevano soltanto all’imposizione delle regole: di fronte alla severità sono timorosi, se devono stare zitti lo sanno fare, ma se invece gli chiedi di stare attivi, se gli dai la libertà, impazziscono, non sanno come gestirla, non sanno che farsene perché non è più un’attività scolastica, non è obbligo, e allora non hanno la casella corrispondente: è gnente. Come se tutto il sistema fosse organizzato per esaltare la passività: una cosa diversa li manda in tilt, e allora si parlano addosso, non sanno regolarsi. Che poi è una questione culturale, è quello che succede anche fuori, in qualsiasi talk show dove vince chi parla più forte».

Ecco, siamo di fronte ad una insegnante esperta, che non solo è stata formata, ma ha anche praticato didattiche attive (in Germania). Nella scuola italiana, tuttavia, la sua professionalità matura è disinnescata, diventa una risorsa latente perché non è in grado di fare un altro tipo di scuola. Gli studenti non la riconoscono come scuola, sono abituati alla routine lezione-studio-interrogazione-voto-oblio. Quanto accaduto alla prof.ssa Nicolini è sostanzialmente quello che succede anche a legioni di docenti formati dalle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario e dai successivi Tirocini Formativi Attivi e, in buona misura, a quelli (soprattutto quelle) formati a Scienze della Formazione per il primo segmento di istruzione. In questi casi la formazione non è mancata, ma la pratica si infrange subito sulle dinamiche della scuola italiana che tritura le novità, tanto è vero che nella scrittura di un PON mi divertii a scrivere, nel campo in cui mi veniva chiesta dove fosse l’innovazione: fare davvero quanto qui dichiarato, noto per essere “innovativo” da cinquant’anni, ma non si fa.

Tornando all’inizio, continuo a chiedermi cosa possa fare un Dirigente Scolastico per favorire evoluzioni didattiche. Di certo può impedirle, come mi capitò quando feci approvare dal Collegio dei Docenti una proposta di didattica tra pari per i corsi di recupero, ma appena stesi una bozza di circolare il Dirigente mi scrisse che se intendevo applicare tale metodologia mi avrebbe revocato l’incarico in quanto il risultato doveva essere garantito dalla mia stessa professionalità docente. È quindi già una gran cosa non impedire le didattiche attive, ma soprattutto penso che un Dirigente Scolastico debba attivare una riflessione condivisa sull’inclusione degli insegnanti non di posto comune perché spesso vivono di luce riflessa e devono quindi essere “illuminati pre bene”, autenticamente, nelle prassi, non solo nell’esplicito, ma nell’implicito, nel linguaggio del corpo, nei fatti.

Credo che, infine, dovrò fare tesoro di un commento di Antonio Vigilante che, nelle discussioni sui social su questo stesso tema, ha scritto: “Temo che un DS possa far poco per indirizzare la didattica, sul piano per così dire della forza. Ma conosco DS che riescono a farlo con l’entusiasmo”.

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