Fabio Fornasari

Libro inclusivo: braille e non solo. Concludiamo l’intervista a Fabio Fornasari

in Bisogni Educativi Speciali/Letture in classe by

Quando si parla di libri inclusivi, non si parla solo di linguaggio braille: ecco la seconda e ultima parte dell’intervista a Fabio Fornasari, dedicata al tema del libro inclusivo.

No, un libro inclusivo non è solo un libro che riporta il linguaggio braille. Ne abbiamo iniziato a parlare in questo articolo, in compagnia di Fabio Fornasari, architetto e museologo italiano. Riprendiamo la piacevole intervista.

Che tipo di pensiero c’è dietro il suo progetto “Ninna nanna per una pecorella”? Qual era l’obiettivo?

Ninna Nanna non è solo una storia bellissima, molto importante proprio in questi giorni di cronache di guerra, ma è la storia che meglio mi permette di spiegare l’importanza di questo progetto. Libri tattili dedicati al cieco ce ne sono, lo sappiamo. Il lavoro della Federazione ProCiechi è importante perché attivano la dimensione immaginativa, avvicinano la bambina e alla bambina alla curiosità tattile. Come dice Paola Gamberini, responsabile dello SCE, il Servizio di Consulenza Educativa dell’Istituto dei Ciechi Cavazza:

toccare non è un’abitudine, ma ci si deve abituare a toccare. Le mani, per diventare intelligenti, devono essere educate ad un’esplorazione ordinata, finalizzata, intenzionale.

Ma con Ninna Nanna per una pecorella abbiamo voluto mostrare una seconda questione: il bisogno di condividere gli stessi immaginari. Non basta fare toccare ma serve fare entrare negli immaginari, condividere i mondi e i personaggi che vengono creati dagli autori e dagli artisti, dagli illustratori. Fare entrare nelle variazioni delle emozioni che gli albi illustrati propongono. L’albo Ninna Nanna apre su una tavola che ha due colline e una stella luminosa in cielo. È l’ultima immagine disegnata del Piccolo Principe, la storia di Saint-Exupéry. Il libro che apre con il narratore nel deserto al quale viene chiesto di disegnare una pecora.

“Ninna Nanna per una pecorella” non solo è importante per parlare di una storia di amicizia e di vero amore, una storia di accoglienza. È importante perché presenta una variazione sul tema dell’amore e dell’accoglienza. Frequentare queste  variazioni sono importanti per comprendere la complessità delle emozioni.

In merito a questo progetto, ha spiegato che è nata l’idea di affiancare alle traduzioni in braille un teatrino. Può dirci qualcosa di più a riguardo?

In passato ho fatto altri libri che condividevano il braille e i disegni a rilievo sulla medesima pagina. Già con il volume per Giunti-progetti educativi di Roberto Marchesini “I nostri amici animali” mi ero dedicato alla traduzione tattile. Sulla stessa pagina due codici non si ricalcano con precisione: lasciano lo spazio dell’incontro e del racconto che può nascere tra bambino vedente e non vedente. L’impianto tattile è differente perché usa una lettura differente. Genera uno spazio di incontro e di conoscenza consapevole.

Nel 2019, nell’occasione di “Boom Crescere nei libri”, abbiamo ospitato nell’atelier del Museo Tolomeo la signora Mitsuko Iwata della Biblioteca Furerai. È stata l’occasione per mettere a confronto la nostra esperienza di laboratorio e di traduzione del libro con la loro lunga e importante esperienza.

Mitsuko Iwata è non vedente, madre. Il suo obiettivo è offrire al genitore cieco uno strumento per poter leggere al bambino il libro illustrato, per garantire al genitore che non vede la possibilità di leggere con il figlio una storia, condividerla e crescerci insieme al suo interno. Questa relazione è importante per la Biblioteca Furerai, al pari della storia letta.

Nel tempo con l’atelier Tolomeo avevamo tradotto diversi libri pensati per offrire al bambino una dimensione immersiva, tridimensionale e multisensoriale. Oggetti dove fare leggere con le mani, prendere, spostare, mettere.

Oggetti da comprendere e da disporre sul tavolo, da mettere in azione con le mani.

Il libro diventa una scatola che contiene una narrazione che esce dal libro, si spazializza e si fa materica. Il libro si mette in gioco, diventa il libro-in-gioco.

La storia può essere riletta e riscritta attraverso il teatrino: “beh, se la pecora non ha paura della lupa allora è la lupa che ha paura della pecora”. Il bambino prende il la figurina della lupa, le fa voltare le spalle alla pecora e la fa correre lontano, fuori dal teatrino.

Non è un Kamishibai, non c’è il narratore in fronte allo spettatore. Sono tutti dentro lo spazio della lettura: il genitore legge con le dita, il bambino che ancora non usa alcun alfabeto, alcun codice, sperimenta con la mano, con le mani, con il corpo la narrazione. La solidifica attraverso l’esplorazione e l’esercizio del proprio corpo.

L’obiettivo finale è arricchire di possibilità immaginative. Dare la possibilità di comprendere e immaginare, di emozionarsi. Come dice ancora Paola Gamberini:

per chi non vede le mani sono una meravigliosa porta sul mondo. Toccare è una forma di appropriazione attiva, contatto diretto con la cosa senza bisogno, almeno immediatamente, dell’intervento interpretante della parola. L’approccio tattile trasmette la percezione confortante della permanenza e non evanescenza degli oggetti. Si entra così in contatto con la consistenza e resistenza dell’oggetto, che ci modifica a ci mette in gioco.

Per questo motivo è importante fare un teatro, fare teatro, farsi attori del teatrino in relazione con l’albo (e anche noi ne avevamo parlato qui!)

Lei è anche direttore scientifico del Museo Tolomeo, che ha fondato con Lucilla Boschi nel 2014 nell’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza. Cosa trova il visitatore, quando varca la soglia del museo?

Una Wunderkammer, un atelier e una stanza multisensoriale.

La Wunderkammer è il primo spazio per la città, il gabinetto delle curiosità dove scoprire cosa è accaduto da quando Louis Braille ha creato il codice che porta il proprio nome. È la stanza dove conoscere una storia di 140 anni di costruzione di opportunità di autonomia, uno spazio dove si accumulano cose che sono state usate nell’istituto.

L’atelier Tolomeo è dove mettere in gioco le conoscenze, le pratiche nella relazione di gruppo: laboratori con più persone, classi. È il luogo di una osservazione partecipata e relazionale. È anche il tavolo anatomico che smonta la complessità per ricomporla in una chiave più comprensibile anche per la percezione aptica.

La stanza multisensoriale è lo spazio in continua trasformazione che prende l’impronta di chi l’attraversa. Uno spazio “responsive” che lavora con la pluridisabilità, sulla relazione del bambino e della bambina nella relazione con la famiglia. Uno spazio in continua trasformazione.

Fonte foto di copertina qui

Libro inclusivo: quattro chiacchiere con Fabio Fornasari.

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Cos’è un libro inclusivo? È un libro “che si mette in gioco”: parola di Fabio Fornasari, architetto e museologo italiano, esperto nel raccontare storie attraverso speciali installazioni. Scopriamone di più!

Sul tema del libro inclusivo abbiamo fatto 4 chiacchiere con Fabio Fornasari, architetto e museologo che si occupa della costruzione di dispositivi per mostrare e raccontare storie di valore, utilizzando progetti e installazioni museografiche, e ambienti di apprendimento. Ecco la prima parte della nostra intervista!

Conosciamo tutti l’enorme valore e potere che risiede nelle storie. Come diceva Roland Barthes “non esiste un popolo senza racconti; il racconto è là come la vita”. Possiamo dire che il suo lavoro – pensando ai libri inclusivi – è espressione massima di questo concetto, volendo lei allargare il più possibile il pubblico fruitore di tali storie?

Vero. Siamo immersi nei racconti, ne abbiamo bisogno come abbiamo bisogno dell’aria e dell’acqua. Ci nutriamo di storie, come il cervo si disseta alla fonte. Il tema è la fonte, potervi accedere. Renderla accessibile per condividere storie, racconti.

Lavorare sui codici, sui linguaggi che ci permettono di arrivare a comprenderle, farle nostre e poterle raccontare. Ce ne accorgiamo già da bambini, noi stessi. Tutti abbiamo letto libri guardando solo le figure. Leggevo i fumetti del fratello o della sorella più grande guardando le sole figure. Non so se ero realmente in grado di far coincidere la mia lettura con l’intenzione dell’autore. Anche una sola parola dell’adulto che passava mi permetteva di avvicinarmi alla trama, al senso del “giornalino”, per poi riallontanarmene verso una mia personale lettura, tra il trovare e il cercare. Variazioni sul tema dello stesso libro.

Ma non è così che si leggono gli albi illustrati? Non è così che si legge? Lasciando spazio alle libertà associative, alle diverse possibili letture. Quindi è doppiamente vera la citazione di Roland Barthes: non solo leggendo ci dissetiamo del racconto, ma dentro di noi se ne forma uno tutto personale che risuona con la nostra vita, diventando noi stessi fonte per altre letture in una pratica immaginativa e di condivisione di immaginari. Questo è l’obiettivo del mio lavoro.

Nella sua biografia si legge “Costruisce dispositivi per mostrare e raccontare storie di valore, utilizzando progetti e installazioni museografiche, e ambienti di apprendimento.” Può farci qualche esempio di progetti e installazioni che ha creato, e per raccontare quali storie?

Un passo indietro. Mi sono iscritto in una facoltà di architettura perché mi interessava il valore comunicativo del progetto, prima ancora del costruire cose. Mi sono iscritto a Firenze perché insegnavano gli architetti radicali che comunicavano il loro pensiero sul mondo attraverso metaprogetti e oggetti concettuali. Oggetti che creavano spazio al racconto del progetto e che portavano alla superficie il valore simbolico, i riferimenti che reinterpretano l’idea stessa del fare design. Ho poi seguito un corso di studi che mi ha spostato verso una museologia con un taglio curatoriale prima ancora che verso la museografia, la progettazione di contenitori per gli oggetti dell’arte.

In quegli anni ho compreso che tutto ciò che entra in scena all’interno di uno spazio espositivo assume un ruolo preciso che non è di natura tecnica ma culturale. Come per i sogni: tutto ciò che vediamo, tocchiamo, emerge per un motivo preciso. Non è casuale ma ha un significato in relazione alle nostre vite, ai nostri vissuti.

In fondo anche il sogno è racconto, entra sotto la nostra attenzione come qualcosa che non dipende da noi.

Come qualsiasi storia, anche il sogno è fatto di ambienti (mondi), di persone (characters) e ha uno svolgimento narrativo (la storia). Il sogno è un dispositivo narrativo che nasconde i propri significati mostrando. Abbiamo bisogno di un aiuto esterno per decodificarlo in relazione al nostro vissuto. Mettere le “maniglie”, creare le istruzioni d’uso per accedervi. Un’ installazione  museale è ugualmente un dispositivo narrativo che permette la comprensione mostrando. Fa emergere il senso dallo spazio intorno all’opera. È quindi una operazione culturale non tecnica.

Come illuminare un’opera: non è tecnica ma operazione culturale. La tecnica è un servizio, che va conosciuto, come un autore deve conoscere la tecnologia che usa: accendere un computer, salvare un file. Ma l’uso che ne faccio ha una dimensione espressiva che diventa linguaggio.

Quindi, a seconda di quello che devo fare, a seconda della richiesta o della mia ricerca continua, senza sosta, devo studiare i contenuti, devo studiarne la storia e i significati per trovare le “maniglie” concettuali che si traducono in scrittura scenica per aprire quei significati, per permettere l’accesso non solo con parole che spiegano ma anche con azioni sui  contenuti, come li mostro.

Smonto e ricompongo la complessità della storia in elementi utili per fare arrivare i concetti. Il dispositivo è quindi innanzitutto un ambiente che si compone di una serie di elementi, di spazi e oggetti, che permettono un’ interazione con chi li visita, si pongono in dialogo. Non vanno semplicemente guardati. L’ambiente offre una serie di esercizi di comprensione che stimolano domande. Un allestimento diventa così un ambiente dove cerco di creare la possibilità di sviluppare un apprendimento significativo, che stimola nella dimensione cognitiva e sensoriale, non dimenticando la parte emozionale per portare alla questione estetica.

Sembra complicato ma è così che funzioniamo: vedere, guardare, comprendere e infine emozionarci.

In sintesi: non progetto teche museali, ma spazi per sviluppare un’ esperienza significativa. Questo mi ha avvicinato al libro come luogo dove sperimentare linguaggi: in fondo anche un libro è spazio organizzato in un tempo che si sfoglia.

Se si pensa ad un libro inclusivo dedicato ad un pubblico non vedente o ipovedente, salta subito alla mente il linguaggio Braille; eppure, come lei ci insegna, un libro inclusivo è molto di più. Può spiegarci le sue caratteristiche?

Un libro inclusivo è un libro che si mette in gioco. Per questo, partendo dall’idea libro-gioco ho aggiunto quell’”in”: libro-in-gioco.

Il libro si mette in gioco perché si apre alla possibilità di essere letto creativamente e quindi anche essere riscritto, sovrascritto, con altri codici, linguaggi e alfabeti.

Al libro illustrato devo aggiungere un’ interazione tattile, un altro codice che mi permette di essere visto con altra modalità da quella visiva. Ma lo devo fare non solo pensando al bambino che non vede o che vede male. Tutti i bambini hanno libri tattili, libri che li aiutano a sviluppare una tattilità sensibile, capace di riconoscere anche solo toccando delle chiavi, per riconoscere e creare un proprio racconto. Bruno Munari sicuramente che porta nel mondo dell’infanzia quella curiosità di natura immaginativa che il novecento ha sperimentato con il libro d’artista.

Ma la tattilità che serve nella disabilità visiva non è solo evocativa: è interazione per una lettura di gruppo, per una lettura non solo in autonomia.

L’interazione tattile mi serve non solo per creare una possibilità di lettura per il cieco verso il libro, ma anche per creare quei rimbalzi tra due o più lettori che leggono inclusivamente il volume. Il libro illustrato è dedicato ai bambini ma anche ai genitori, alla famiglia. Oppure alla lettura a scuola. È un libro che viene letto insieme perché tutti notano dettagli che altri non hanno notato, significati nascosti.

Un libro illustrato formula la possibilità di sviluppare pensiero intorno al senso del racconto. Scritto dagli autori sono le persone insieme che leggendolo ne ampliano il racconto, lo completano. Tutte le persone coinvolte devono poter avere accesso al contenuto.

Ma chi è il cieco? Chi non può vedere? Il bambino? La bambina? Il genitore? L’educatrice o l’educatore? Se il cieco è il genitore?  Come fa a raccontare al bambino la storia se non può vedere cosa c’è sulla pagina? La figlia, il figlio, possono raccontargli le immagini ma se non sa ancora leggere non può accedere al testo. Per questo il libro lo devo arricchire di una serie di elementi, di scritte in braille che mi permettono di orientare nello spazio della pagina la lettura dell’adulto cieco. Devo permettergli di comprendere la storia e i significati attraverso patine che non sviluppano una tattilità precisa, materica ma solo geometrica, prossemica.

Sarà nella relazione con il piccolo o la piccola che potrà completare l’esperienza di lettura. Così la piccola o il piccolo, pur non sapendo leggere le parole scritte e non conoscendo i significati, è attraverso il dialogo con l’adulto che legge il braille che raggiunge il senso di quella lettura.

Se chi non vede è il piccolo o la piccola ha bisogna di attivare la sua capacità immaginativa con il teatrino, con uno spazio dove raccontare i personaggi resi tridimensionali immersi in una scenografia. A differenza del Kamishibai, non sta di fronte alla scena ma con le mani si immerge nella scena, studia i personaggi ed entra nei ruoli sperimentandoli con il gioco.

L’intervista a Fabio Fornasari sul tema del libro inclusivo continua nel prossimo articolo…

Foto di copertina tratta da https://fabiofornasari.net/

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