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Squid Game, la serie TV al centro delle polemiche

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Parliamo di Squid Game: la serie TV coreana che sta scatenando forti polemiche tra i genitori e non solo.

Capita, con ricorrenze che a volte sono da un decennio all’altro, che una produzione seriale per l’industria culturale di massa scateni furiose dispute etiche e pedagogiche. Anni fa furono gruppi di genitori che si scagliarono contro i (presunti) rischi di Goldrake, suggerendo a Gianni Rodari un memorabile articolo a difesa degli anime giapponesi. Quest’anno il pericolo sembra venire ancora da oriente, nei nove episodi della serie di produzione sudcoreana Squid Game. È quindi forse il caso di provare a fare un po’ di chiarezza.

Punto primo, o delle responsabilità degli educatori.

Squid Game è disponibile alla visione sulla piattaforma Netflix, con l’avvertimento di essere prodotto destinato ai maggiori di quattordici anni.

Ora, per vederlo, è necessario superare almeno tre livelli di difficoltà. E’ necessario cioè avere una connessione Internet (disponibile in casa o su tablet o smartphone in forma di dati per la Sim); è necessario avere un abbonamento a Netflix (che è piattaforma a pagamento e non gratuita); sarebbe necessario aver già compiuto il quattordicesimo anno di età. Se non si fosse sicuri che quest’ultimo requisito sia rispettato, è facoltà dei genitori di inserire una protezione aggiuntiva, sotto forma di un PIN a quattro cifre, scelto da loro e non conosciuto da figli e figlie.

Chi si lamenta del fatto che i propri bambini e le proprie bambine guardano un prodotto seriale non adatto a loro ha quindi la precedente responsabilità di non aver posto sufficiente attenzione alla salvaguardia dei livelli di accesso descritti.

Punto secondo, o delle conoscenze linguistiche degli educatori.

Come molto del cinema asiatico contemporaneo, Squid Game ha livelli di scrittura, di direzione della fotografia, di regìa altissimi. Purtroppo, come spesso accade, non simile al livello di preparazione di molti che lo criticano, lanciando allarmi di tipo etico e pedagogico e chiedendone anche, come anche stavolta hanno fatto alcune associazioni, l’oscuramento totale.

Punto terzo, o della coerenza pedagogica.

Ripetiamolo ancora una volta: Squid Game è “vietato ai minori di 14 anni”. NON è una serie per bambini e bambine.

Ribadito questo, coerenza pedagogica vorrebbe e che gli educatori (genitori, psicoterapeuti, insegnanti etc.) lo avessero visto prima di criticarne dei supposti effetti sociali e che gli stessi considerino nella discussione almeno due altri elementi, corollari di questo terzo punto:

1. Il fatto che la ripetizione ludica di scene viste al cinema o in televisione, anche per emulazione, è comportamento insito nel principio stesso della ricezione audiovisiva (nessuno di noi ha mai giocato a cowboy e indiani, terrestri e alieni, zorro e capitani spagnoli? Nessuno, davvero, ha mai ‘ucciso’ o è mai ‘morto’ giocando, naturalmente rinascendo un secondo dopo la fine del gioco?).

2. Il fatto che l’accusa fatta a Squid Game: “è diseducativo il messaggio che se perdi sei morto” (obiezione che personalmente potrei sottoscrivere del tutto) varrebbe se fosse applicata, con coerenza, a quasi tutto il senso comune che nella scuola e nella società si è diffuso almeno da trent’anni a questa parte. Cos’altro trasmette, a guardar bene, l’aver accettato che un brutto voto, un goal preso su un campetto di periferia, una esclusione da x-factor o simili siano indicatori di una sconfitta radicalmente esistenziale, quindi di una morte sociale?

Guardiamolo insieme, per favore, e discutiamone. È importante ed è un impegno che tutti e tutte dovremmo prenderci.

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