In ogni momento della mattinata i ragazzi mettono alla prova i docenti. A volte in modo consapevole, a volte inconsapevole. Sabina Minuto dice: “ho una sola domanda guida. Cosa funziona?“. Ecco le sue strategie
Ore 7,30. Arrivo a scuola. È ancora buio ma di solito dalla finestra dell’aula di quinta vedo un’alba sul mare magnifica. Quasi ogni mattina faccio una foto. Poi vado al computer a stampare le mie Mini Lesson e il materiale per la giornata. A scuola non c’è ancora quasi nessuno. Io, i bidelli e Bruno, il mio responsabile di plesso. Un uomo fantastico che riassume su di sé la mission del nostro istituto: l’accoglienza. Noi lottiamo ogni giorno per tenerli a scuola i nostri ragazzi, per essere i loro adulti affidabili, per far vedere loro che la scuola conta, è importante nella vita di tutti.
Alle 7,55 suona la prima campana. Il sole oramai è già alto. Nell’aula non c’è nessuno. Eppure dovrebbero essere già tutti qui, quelli per cui io lavoro: gli studenti. Alle 8 la seconda campana suona accompagnando qualche alunno che transita nel corridoio. Dovrei iniziare la mia lezione. In classe ho forse 2 ragazzi arrivati nel frattempo. Alcuni si sono fermati alle macchinette per far colazione. Arrivano con il cappuccio in testa, le cuffie il caffè. Alle 8,10 inizio con rammarico ( tempo perso!) a lavorare. Chi c’è, c’è. Mi dico. E qui comincia il bello. Sì perché questo mio lavoro è bellissimo. Dunque siamo in cinque, più o meno.
Poesia del giorno: leggo ad alta voce come un regalo. Finirà appesa nella bacheca fatta in classe. Ma la ascoltano in 4? Pazienza. Spero sempre che altri arriveranno e leggeranno. Nel frattempo arrivano studenti. Non insieme. Ognuno per conto suo. Uno ogni 5 minuti. La lezione si interrompe di continuo. La minilesson si prolunga. Riprendo il filo una, due, tre, volte. Faccio una fatica bestiale. Quando ne ho un numero considerevole seduto ( mai tutti) qualcuno chiede di uscire. Torna con la colazione e spesso la vuole consumare sul banco, proprio davanti a me che sto lì a lavorare per loro.
Perché vi dico racconto questo?
Perché capiate come lavorare in certe condizioni sia difficile. Ma altrettanto capiate come io abbia eletto proprio questa scuola, questo istituto a mio luogo di lavoro per scelta. Se fossi un adulto qualsiasi tra i tanti che non sopporta i ragazzi e men che mai gli adolescenti, avrei già, a quel punto della mattinata, “ sbroccato” come dicono loro. So che i ritardi, il mangiare, il non essere puntuale sono mancanze di rispetto verso di me e verso il regolamento di istituto. Ma quale altra scelta ho?
- Urlare ogni volta ai ragazzi che non sono puntuali e sgridarli. Perfino insultarli.
- Mettere richiami o note sul registro
- Chiamare il mio responsabile di plesso
- Fare romanzine su romanzine
- Arrabbiarmi tanto e decidere di non lavorare.
Tutto questo non funziona. Già sperimentato, non funziona affatto. Al massimo serve a far sospendere un alunno, con soddisfazione di molti. E poi? Io sono pagata per tenermeli sui banchi non per lasciarli fuori dalla porta. In quel momento io non sono un adulto qualsiasi. Sono l’adulto che rappresenta l’istituzione scuola. A casa mia posso permettermi di urlare e arrabbiarmi se mio figlio tarda. O mangia sul divano, o non toglie le cuffie. A scuola no. Io faccio così: ho una sola domanda guida. Cosa funziona? Cosa posso ragionevolmente fare per lavorare meglio con loro e ottenere passo passo anche un piccolo cambiamento? Che ruolo devo assumere davanti a loro? La mia versione adulto scocciato e anche un po’ iroso deve stare fuori della porta. Questo non vuol dire che io non lo sia. Anzi. Ma devo mettere in atto strategie che li aiutino e mi aiutino.
Io faccio così: ho una sola domanda guida. Cosa funziona?
Strategia uno: l’ironia. Funziona sempre. Un veloce commento ironico ma benevolo sul fatto che almeno quella mattina sei arrivato! Tardi ma ci sei! E subito via a lavorare. Il foglio distribuito è già sul banco del ritardatario che normalmente si aggiorna dal vicino ( mai lo stesso; entrano e si seggono tutti insieme assiepati perché conta il gruppo non il posto).
Strategia due: ironia che sottolinea come il perdere tempo sia dannoso. Peccato! Ti sei perso 10 minuti della mia formidabile lezione caro alunno! Adesso datti da fare che siamo già avanti.
Strategia 3 : sorriso. Io sorrido sempre! Dico un sonoro buongiorno. Grazie di essere fra noi oggi. Ce la faremo ad arrivare alle 2! Coraggio! E via a lavorare. Oramai ho imparato. Devo essere quell’adulto che accoglie ma non giudica. Io non posso permettermi di perdere la relazione. L’apprendimento passa sempre e solo da lì.
In pratica in ogni momento della mattinata i ragazzi ci mettono alla prova. A volte in modo consapevole ( provocano) a volte inconsapevole. Che posso fare se voglio tenermeli a scuola e lavorare? Devo essere io ad esercitare un ruolo adulto non pretenderlo da loro. Io devo essere affidabile e ferma. Non deve passare il messaggio che tutto è lecito ma che io adulto sono in grado di tollerare da te un comportamento non corretto proprio perché io sono adulto e so gestire il rapporto, tu adolescente no. I ragazzi sanno bene che non sono una che lascia correre o che non tiene al rispetto delle regole. Solo gliele rammento in altro modo. Con l’esempio e spesso lasciando a loro la scelta di chi vogliono essere in quell’ora con me in classe. Io ti dico quali strade puoi percorrere ma lascio a te la responsabilità, se no non cresceranno mai. Tutto questo ovviamente comporta una buona dose di incertezza (sul cosa succederà) e anche di notevole forza d’animo (che non mi manca, per fortuna).
Nella mia classe non porto mai con me i problemi di casa, i malumori, le scortesie del corridoio. Solo una volta i ragazzi mi hanno vista piangere forte quest’anno per un enorme dolore in diretta. Erano spaventati. E più affranti di me. Nella mia classe non porto pregiudizi o cerco di non farlo. Non appiccico etichette a nessuno, non sono sempre prevenuta sui risultati. E questo fa la differenza, credo. Cerco di far passare il messaggio: ognuno di voi mi sta a cuore. Dobbiamo farcela insieme. Non vi giudico da come apparite. Dimostratemi come siete.
Non vi giudico da come apparite. Dimostratemi come siete.
Il problema è che spesso loro non sanno come sono o come potrebbero essere. Quindi tocca a me farlo scoprire. Due alunni di quinta mi han detto poco tempo fa che vogliono iscriversi a lettere. Non credo sia solo merito mio. Ma credo sia una cosa potente. Possiamo farlo, se vogliamo.
Nella mia classe non porto il mio sconforto mai. Solo entusiasmo. Tutto è sempre bellissimo, per tutto vale la pena di stare lì, anche solo per sentire leggere un quick write condiviso da chi magari ci ha lavorato tempo e ci ha messo notevole fatica. Nella mia classe non porto pesi. Il peso delle classifiche ad esempio, delle graduatorie, dei risultati . Le lascio fare agli altri, Fra noi ci sono pari che si confrontano, persone che non qualifico dal loro retroterra culturale o sociale. Ammetto i loro sbagli, le loro sicurezze, sto a sentire.
Nella mia classe invece porto me stessa. Autentica. In carne ed ossa senza finzione. Sono io e basta. Fuori della scuola come dentro, ma più padrona di me. I ragazzi non tollerano chi finge, non apprezzano le maschere. Il patto educativo fra me e loro é esplicito. Ne discuto a inizio anno. Io sono questa, voi chi siete? Una volta chiariti fondamentali possiamo poi lavorare.
Giorno dopo giorno vedo i mesi srotolarsi davanti a noi. Giorno dopo giorno, lavoriamo, parliamo, dibattiamo, costruiamo. Giorno dopo giorno colleziono fotografie dell’alba scattate dalla stessa finestra. Se qualcuno (!) arriva presto a volte fotografiamo insieme. A volte ( entro la seconda campana) prendiamo anche un caffè. Ma poi si entra e si lavora. Il mio alunno A. dice sempre che io ho la testa dura. È vero. Chiedo tanto, ma spero di dare anche tanto.
Che gran soddisfazione: io faccio un mestiere bellissimo.
Illustrazione di copertina: Lin Yun, Mostra degli illustratori, BCBF2019