La lettura del testo di Don Milani e della Scuola di Barbiana riesce ancora oggi – dopo 100 anni – a proporre spunti di riflessione sulla scuola e gli insegnanti.
Si celebrano quest’anno i 100 della nascita di Lorenzo Milani, mancato nel giugno del 1967 e protagonista negli anni sessanta per il suo contributo alla determinazione di quella che oggi potremmo chiamare “la vision di un’epoca”, gli anni sessanta e, per fertilità conseguente, gli anni settanta.
La sua opera più famosa ha una firma collettiva “Scuola di Barbiana” e viene scritta cinque anni dopo l’istituzione della “scuola media unica” che, dal 1962 ha sostituito l’avviamento professionale al quale erano destinati i figli delle classi popolari, e che produsse una quantità di bocciature abnormi in una scuola ancora culturalmente gentiliana e operativamente selettiva.
Molte le iniziative che celebrano questo centenario
Personalmente partecipo in veste di tenore a quelle proposte dal “Coro Daneo” di Genova che intervalla letture dalla “Lettera” e da “L’obbedienza non è più una virtù” a canzoni culturalmente affini (si trovano filmati in rete, nel repertorio, a titolo di esempio: Prendi la chitarra e vai, È dall’amore che nasce l’uomo, Power to the people, Here’s to you, Il disertore, C’era un ragazzo, Ti ricordi Joe?).
Viene tuttavia da domandarsi, approfittando della ricorrenza, quali siano i limiti della scuola di oggi al fine di attualizzare l’azione politica di Don Milani, anche superandone gli errori, spesso figli di un’epoca, probabilmente facendo di conseguenza i nostri. “Aiutami a fare da solo!” è un motto montessoriano che mi sembra giusto evocare a questo punto per attinenza.
La scuola è molto cambiata e la legislazione scolastica è assai avanzata e inclusiva
La lettura dello Statuto delle Studentesse e degli Studenti, come il D.P.R. 122/2009 e il D.Lgs. 62/2017 che trattano di valutazione e, soprattutto, le indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, le linee guida degli istituti professionali, quelle degli istituti tecnici e le indicazioni nazionali per i licei delineano, sulla carta, un contesto ricco, avanzato, personalizzato e inclusivo.
Ma nel mondo reale le cose stanno veramente in questo modo? La legislazione è attuata? Le linee guida trovano corrispondenza nelle prassi? Purtroppo occorre ammettere di no.
Faccio un piccolo esempio tratto dal mio lavoro
Ricevo una studentessa in lacrime. Confessa di avere saltato una verifica al penultimo giorno di scuola, avendo fino ad allora maturato valutazioni dignitose e sufficienti. È entrata in ritardo all’ultimo giorno proprio per saltare quella materia.
L’insegnante la raggiunge, la tira fuori dall’aula e la interroga fuori orario. Le assegna una grave insufficienza che rischia di compromettere la promozione. La studentessa piange in corridoio ed è intercettata da un insegnante che la porta da me. Lei non vuole farlo perché ha paura della vendetta dell’insegnante, ma si lascia convincere.
Grazie alla mediazione dell’insegnante che me l’ha portata, comunque vuota il sacco. Confessa, si scusa e piange perché è sempre stata promossa e quest’anno, per questa bravata rischia la sospensione del giudizio. Siamo quindi di fronte ad un atteggiamento poco maturo da parte di una persona in formazione (che quindi ha diritto ai suoi errori).
Ma perché la studentessa ha saltato quella verifica?
Perché una studentessa che ha sette nel primo quadrimestre, si ritrova a “giocare in difesa” negli ultimi giorni di scuola?
Perché pensa che un’unica prova finale possa inficiare un intero anno scolastico?
La risposta è semplice: quell’insegnante basa la sua azione didattica entro la dinamica del potere ed è autocentrata. Strilla in classe, strilla in corridoio, strilla anche coi colleghi. Non è a disposizione dell’apprendimento, ma del proprio narciso.
Vuole che le si riconosca il fatto che nelle sue classi non vola una mosca, poco importano gli insegnamenti di Daniela Lucangeli sull’apprendimento emotivo, sulla significatività dell’esperienza didattica quando avviene in contesti che valorizzano la curiosità e non stigmatizzano l’errore.
Ciò a cui alcuni insegnanti abituano gli studenti e le studentesse è una mera rappresentazione dell’apprendimento entro l’insensatezza della didattica che ho battezzato “spiego, studi, interrogo, dimentichi” (SSID). Per tredici anni di scuola.
La professionalizzazione della classe docente
Ecco, credo quindi che la battaglia degli anni venti del ventunesimo secolo sia quella della professionalizzazione della classe docente che deve diventare strutturalmente esperta di psicologia dell’età evolutiva e di dinamiche di gruppo (nella mia vita di insegnante di sostegno ho osservato diverse volte che, quando un adolescente discute con un insegnante, non sempre si notano le differenze nell’atteggiamento e nelle argomentazioni), di pedagogia dell’inclusione, di tecniche didattiche cooperative, di docimologia della valutazione formativa e di legislazione scolastica.
È probabilmente inutile immaginare il ripristino delle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario quando basterebbe istituire un supervisore della formazione per ciascun insegnante al fine di indirizzare ognuno, in maniera sartoriale fondato sul bisogno formativo del singolo, entro le risorse formative offerte dal territorio che tra ambiti scolastici, università e tessuto culturale cittadino (nella mia città, ad esempio, penso a Palazzo Ducale e alle tante associazioni che promuovono eventi e cultura dal basso) possono incarnare quanto già in vigore nell’attuale contratto collettivo nazionale quando, nel profilo professionale degli insegnanti, li si descrive in questo modo bellissimo: «Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica».