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Una riflessione su nuove categorie di Bisogni Educativi Speciali

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Nelle scuole è stata introdotta la categoria dei “plusdotati”, studenti più intelligenti secondo test specifici, inclusi nei BES per i loro bisogni educativi speciali, rischiando concezioni divisive.

Oltre a quella di DSA e di BES (e forse di altre che al momento mi sfuggono) nelle nostre scuole è stata recentemente introdotta un’altra categoria, quella dei ”plusdotati”, ovvero gli studenti che – secondo appositi test – risultano essere più intelligenti (“di un’altra categoria”, verrebbe da dire) rispetto agli altri. Una categoria inclusa in quella dei BES visto che anche i più dotati avrebbero dei bisogni educativi speciali, terminologia con la quale si intendeva invece definire, in linea generale, il caso di uno svantaggio sociale od economico; qui invece si parla di alunni “gifted”, come sono definiti in modo per lo meno discutibile, come se ogni alunno non recasse in sé un dono proprio, particolare: dispiace davvero, questa definizione, che sembra recare tracce di una concezione divisiva se non discriminatoria e gerarchica della scuola e della società.

Una prima osservazione riguarda proprio questa ennesima introduzione di una terminologia che tende a classificare e a separare, giudicandoli particolari, degli alunni: c’è forse uno studente, infatti, che non abbia dei bisogni educativi speciali? Non sono tutti gli studenti dei casi particolari che la scuola, la classe deve riuscire a mettere insieme e a far collaborare? E, soprattutto, è così necessario immettere nel vocabolario scolastico continue definizioni che vogliono rappresentare una casistica di per sé infinita? Perché, infine, non si valuta la capacità degli insegnanti di discernere, capire chi si ha davanti senza dover fare ricorso a tabelle e specializzazioni le più varie? Non sono forse sempre esistiti, nella scuola, i casi speciali a cui si vorrebbe dare – non si sa bene come – una specie di tutela ulteriore?

Burocratizzazione continua

Mentre si va facendo sempre più alta, benché inascoltata, la voce che chiede una sburocratizzazione, ecco – in sintesi – che si vuole tassonomizzare un altro aspetto, da sempre esistito, della vita scolastica.
Vi è poi un problema più di fondo, o meglio più problemi di fondo, il primo dei quali è relativo alla domanda che sorge inevitabile: cos’è l’intelligenza? È davvero misurabile? I già citati test sembrano non dire poi molto, poiché il concetto stesso di intelligenza appare sfumato ed assai poco definibile, esistendo – tra l’altro – una pluralità di forme d’intelligenza, alcune delle quali impossibili da misurare e quantificare, come quella psicologica, quella emotiva, quella relazionale e così via (si veda il bel saggio di U. Galimberti Il mito dell’intelligenza, in I miti del nostro tempo, ed. Feltrinelli). A quale, dunque, dare la prevalenza? E perché solo ad una?

L’altra questione attiene al concetto stesso di scuola: non è che a forza di suddividere gli alunni in categorie a sé stanti si perde uno dei sensi dello stare a scuola, ossia lo scambio, l’ascolto, lo stare tra diversi eppure tra simili? Non è questa una delle missioni principali della scuola da quando esiste? Che poi, va detto, soluzioni miracolose ai bisogni educativi speciali non esistono: l’alunno più dotato (con le sfumature di significato non secondarie di cui sopra) incorrerà talvolta in una certa noia, così come non mancheranno le situazioni in cui gli svantaggiati avranno difficoltà a seguire le lezioni: ma forse è anche all’accettazione di questi fatti come normali e consustanziali alla vita scolastica, alla – si passi – sdrammatizzazione di dinamiche sempre esistite che si dovrebbe guardare.

Credits: Foto di Austris Augusts su Unsplash

Certificazioni BES e DSA, sono sempre necessarie?

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In Italia, i dati ci dicono che forse ci sono troppe certificazioni BES e DSA: servono realmente sempre o si tratta talvolta di scorciatoie per alunni, genitori e scuole?

Mesi addietro parlo con una mamma al ricevimento: la figlia è in prima media, dobbiamo discutere circa il rinnovo del documento BES. L’alunna va bene, non mostra particolari problemi; dalle relazioni della scuola primaria risultava addirittura brillante. Unico neo: non usa il corsivo. Ne parlo con la madre, anche perché le rare volte in cui le ho visto usare il corsivo, lo ha fatto con ottimi risultati. “Mia figlia ha un quoziente intellettivo troppo alto: la psicologa ha sconsigliato di usarlo. Così evita di subire troppo stress”.

Lì per lì faccio fatica a comprendere il connubio quoziente d’intelligenza-corsivo-stress, poi realizzo l’assurda verità e propongo alla madre di cancellarla: documento BES cestinato e alunna che scrive in corsivo meglio di prima, senza finora aver manifestato segni di eccessivo stress.

L’episodio, uno dei tanti che riempiono l’infinita aneddotica scolastica, piena di aspetti paradossali, offre lo spunto per qualche riflessione: pur condannando ogni forma di generalizzazione sulle certificazioni BES e DSA, non si può non constatare la diffusa percezione – da parte dei docenti – di una pratica ormai fuori controllo, soggetta a regole e parametri a volte non chiari.

Alunni certificati per lieve iperattività o scarsa attenzione, alunni certificati per scarsa applicazione allo studio o perché non hanno mai imparato a leggere e a scrivere… e certificazioni che talvolta compaiono “magicamente” al redde rationem dei voti in pagella!

Insomma, ce n’è abbastanza per avere il sospetto che si sia non di rado abusato di una possibilità che invece dovrebbe essere utilizzata solo in alcuni e ben comprovati casi.

Che vi sia una proliferazione indebita di tali certificazioni pare confermato dai dati: come spiegare altrimenti, in molte classi, la presenza di un terzo di alunni certificati?

È forse diventata l’Italia un paese di disgrafici, dislessici o iperattivi affetti da disturbi d’attenzione? C’è forse, dietro a questo scenario, una rappresentazione di alcuni dei mali che affliggono l’Italia e il mondo contemporaneo?

Ci sono l’incapacità, sempre più diffusa, dei genitori a svolgere il proprio mestiere e la tendenza – di fronte ai problemi scolastici – a cercare la comoda scorciatoia della certificazione?

Una scorciatoia comoda per tutti: per l’alunno, il genitore, la scuola che così non deve stare in ansia per l’attesa di un eventuale ricorso contro la bocciatura.

Scorciatoia malefica, perché sottrae l’alunno al proprio compito di realtà, quello vero, far fronte alla realtà delle richieste cui è chiamato.

Malefica perché rafforza quel senso di irresponsabilità, di sottrazione al proprio impegno nel quotidiano, che rischia di creare una generazione di inadatti ad affrontare le – ahimè – inevitabili e numerose difficoltà della vita.

E, infine, scorciatoia che denota la sempre più marcata tendenza alla medicalizzazione della vita e del nostro rapporto con essa, per cui ogni difficoltà o malessere diventa subito patologia da estirpare e non questione da affrontare.

Ma se questo scenario esiste e si sta sempre più espandendo, una responsabilità grave ce l’ha la scuola e chi la governa, incapace di sottrarsi a dinamiche svilenti e prona ad assecondare sempre e comunque quelli che ormai non sono più genitori ma “clienti”; una scuola che a volte sembra aver abdicato ai suoi compiti di insegnare a leggere e a scrivere, obiettivi ormai fuori moda e retrogradi nella scuola dell’empatia e del cooperative learning (verrebbe davvero da rivalutare almeno qualcosa della scuola di prima, che forse garantiva un po’ di più le conoscenze di base).

Sembra urgente, in definitiva, il recupero di una funzione educativa garante dell’evoluzione degli studenti e non di una loro difesa a priori da quegli ostacoli e difficoltà che è compito primario della scuola far conoscere.

E tutto ciò, va ribadito, al netto di quei non pochi casi che meritano il ricorso alle certificazioni e per i quali le garanzie sono non solo legittime ma sacrosante.

Crediti copertina: Ignacio Palomo Duarte

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