Le classi del “Gnente” e la didattica passiva della scuola italiana
Cosa può fare un Dirigente Scolastico per favorire evoluzioni didattiche?
Sul numero di domenica 18 agosto 2019 de L’Espresso appare un articolo a firma di Susanna Turco dal titolo “Francoforte-Roma e ritorno: l’anno spericolato della prof nelle classi del Gnente”, sottotitolo: “Quarant’anni, laurea in filosofia, Ottavia Nicolini (figlia di Renato, l’inventore dell’Estate romana) dopo un decennio in Germania è stata richiamata come docente “potenziato”. Ecco la sua esperienza in un istituto al confine della Capitale”.
Da futuro dirigente scolastico mi sono posto il problema delle ore di potenziamento, che ritengo simili a quelle di Attività Alternativa all’Insegnamento della Religione Cattolica e, pure, a quelle nelle quali l’insegnante di sostegno “sostituisce” la/il collega di posto comune. Si tratta di tre situazioni nelle quali l’ambiente, cioè gli studenti, abituati a didattiche direttive e frontali, si sentono largamente autorizzati a non fare niente. Nell’anno in cui sono stato insegnante di Attività Alternativa in una classe formata da persone a me sconosciute e sulle quali “non avevo alcun potere”, sono riuscito a fare un paio di lezioni. Poi lo sforzo sarebbe stato immane e ho dovuto ripiegare sullo studio assistito nel quale era ampia la possibilità del dolce far niente. Da insegnante di sostegno è stato più semplice “prendere il potere”. Qualche volta perché ero “insegnante misto” e quindi, semplicemente, ho fatto la mia materia. Più spesso perché nel corso delle lezioni in compresenza avevo comunque costruito la mia immagine di insegnante nei confronti degli studenti. Sia chiaro che anche da insegnante di matematica mi è stato difficile entrare in una mia classe in un’ora di assenza improvvisa di una collega e fare la mia materia,. Le lamentele sono forti e negli ultimi due anni credo di esserci riuscito non già perché “sono un bravo insegnante”, ma perché per un anno sono passato al ruolo di vice preside che, fornendomi di un investimento gerarchico, ha alterato della grossa, a mio vantaggio, le percezioni degli studenti.
Nella scuola italiana, tuttavia, non tutti possono essere nominati vice presidi, non tutti sono grandi e grossi (non è indispensabile né necessario, ma aiuta), non tutti sono esperti, radicati e strutturati (idem), quindi abbiamo un problema di sistema perché tante ore sono buttate letteralmente via e ciò che si assicura a scuola è la mera vigilanza. Mera vigilanza significa vilipendere tutte le belle parole che descrivono la professionalità docente nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro che, di fatto, si riduce a garantire tutele molto basse nella piramide di Maslow.
L’articolo che nel presente intervento sostanzialmente commento, nel descrivere l’esperienza di un’insegnante di filosofia assegnata in un istituto tecnico (ci sarà bisogno di “educazione filosofica” nei tecnici? io penso di sì), rientrata in Italia grazie al potenziamento della Legge 107/2015, mette in evidenza alcune deprimenti differenze tra il sistema passivizzante italiano e il sistema attivistico tedesco.
È necessario citare un breve passo dell’articolo:
In aule che, a dispetto di quanto ci si aspetterebbe, sono assai più fredde di quelle di Francoforte («la maglia di lana mi è servita a Roma, non in Germania»), l’inizio di qualsiasi ora di lezione era, anzitutto, un rotondo no. Assolutamente no. «La prima difficoltà era farsi ascoltare, superare quel rifiuto, rompere il muro del niente. In Germania, soprattutto se sei un docente italiano, nell’anno di affiancamento che è previsto ti insegnano a superare il metodo della lezione frontale: quella in cui tu parli e gli studenti stanno zitti e ascoltano. I tedeschi pensano che l’Italia sia didatticamente più indietro di quanto non siamo in realtà, ma è vero che quel metodo la scuola italiana, almeno quella che ho visto io, non l’ha ancora davvero abbandonato. E va anche detto che io stessa, dopo anni nelle scuole tedesche non vedevo l’ora di tornare al metodo frontale: zitti e ascoltate, basta con questa interazione». Però poi, abituata a classi curiose e aperte agli stimoli, ha ritrovato l’oppositività italiana. «Un’opposizione fortissima a qualsiasi proposta fuori dall’attività scolastica, quella che prevede che tu stia fermo ad ascoltare la lezione, oppure che giochi col cellulare durante le pause. A un certo punto, a caccia di attività terze, ho provato a far costruire una playlist a una classe: ognuno indicava la sua canzone preferita, poi si votava, alla fine avremmo ascoltato le prime tre classificate. Un modo per fare stare insieme i ragazzi che li ha pure entusiasmati. Ma è stato difficile gestire anche quello». Si dice che chi si ama si ascolta, là era persino difficile accettare che qualcun altro aprisse bocca. «I ragazzi parlavano sopra, non rispettavano i turni, non sapevano collaborare. Uno magari per l’entusiasmo saltava in piedi sopra il banco, un altro faceva partire una cassa bluetooth grossa come un bollitore nascosta sotto un mucchio di cappotti, un altro lanciava in aria il telefonino. Complessivamente, ho trovato studenti che rispondevano soltanto all’imposizione delle regole: di fronte alla severità sono timorosi, se devono stare zitti lo sanno fare, ma se invece gli chiedi di stare attivi, se gli dai la libertà, impazziscono, non sanno come gestirla, non sanno che farsene perché non è più un’attività scolastica, non è obbligo, e allora non hanno la casella corrispondente: è gnente. Come se tutto il sistema fosse organizzato per esaltare la passività: una cosa diversa li manda in tilt, e allora si parlano addosso, non sanno regolarsi. Che poi è una questione culturale, è quello che succede anche fuori, in qualsiasi talk show dove vince chi parla più forte».
Ecco, siamo di fronte ad una insegnante esperta, che non solo è stata formata, ma ha anche praticato didattiche attive (in Germania). Nella scuola italiana, tuttavia, la sua professionalità matura è disinnescata, diventa una risorsa latente perché non è in grado di fare un altro tipo di scuola. Gli studenti non la riconoscono come scuola, sono abituati alla routine lezione-studio-interrogazione-voto-oblio. Quanto accaduto alla prof.ssa Nicolini è sostanzialmente quello che succede anche a legioni di docenti formati dalle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario e dai successivi Tirocini Formativi Attivi e, in buona misura, a quelli (soprattutto quelle) formati a Scienze della Formazione per il primo segmento di istruzione. In questi casi la formazione non è mancata, ma la pratica si infrange subito sulle dinamiche della scuola italiana che tritura le novità, tanto è vero che nella scrittura di un PON mi divertii a scrivere, nel campo in cui mi veniva chiesta dove fosse l’innovazione: fare davvero quanto qui dichiarato, noto per essere “innovativo” da cinquant’anni, ma non si fa.
Tornando all’inizio, continuo a chiedermi cosa possa fare un Dirigente Scolastico per favorire evoluzioni didattiche. Di certo può impedirle, come mi capitò quando feci approvare dal Collegio dei Docenti una proposta di didattica tra pari per i corsi di recupero, ma appena stesi una bozza di circolare il Dirigente mi scrisse che se intendevo applicare tale metodologia mi avrebbe revocato l’incarico in quanto il risultato doveva essere garantito dalla mia stessa professionalità docente. È quindi già una gran cosa non impedire le didattiche attive, ma soprattutto penso che un Dirigente Scolastico debba attivare una riflessione condivisa sull’inclusione degli insegnanti non di posto comune perché spesso vivono di luce riflessa e devono quindi essere “illuminati pre bene”, autenticamente, nelle prassi, non solo nell’esplicito, ma nell’implicito, nel linguaggio del corpo, nei fatti.
Credo che, infine, dovrò fare tesoro di un commento di Antonio Vigilante che, nelle discussioni sui social su questo stesso tema, ha scritto: “Temo che un DS possa far poco per indirizzare la didattica, sul piano per così dire della forza. Ma conosco DS che riescono a farlo con l’entusiasmo”.