La condizione di mutismo selettivo è attualmente interpretata come una problematica su base ansiosa con elevati livelli di imbarazzo e ansia sociale, timidezza e possibile tendenza al ritiro e all’isolamento. Quali strategie risultano efficaci in classe?
Gestire ed integrare in una classe scolastica un bambino con una condizione di mutismo selettivo può risultare altamente complesso e frustrante. È complesso perchè ogni accorgimento educativo che si voglia adottare non sempre funziona, a volte è controproducente e trovare specialisti attrezzati che diano consigli su come muoversi non è semplice. È inoltre frustrante perché appare evidente la discrepanza che esiste tra il potenziale del bambino, spesso piuttosto competente e lo scarso livello di adattamento sociale che esso raggiunge. Se poi siamo operatori con un buon livello di capacità empatica nei confronti dei bambini, cioè se riusciamo con facilità a “metterci nei panni” dei nostri piccoli, il lavoro risulta ulteriormente faticoso perché ci è facile comprendere quanto si possa vivere con disagio questa situazione.
discrepanza tra il potenziale del bambino e lo scarso livello di adattamento sociale che raggiunge
condizione di mutismo selettivo emerge solitamente in età prescolare: è attualmente interpretata come una problematica su base ansiosa con elevati livelli di imbarazzo e ansia sociale, timidezza e possibile tendenza al ritiro e all’isolamento. Una componente centrale di questi bambini sembra essere l’inibizione del comportamento, intesa come tratto costituzionale del temperamento. Alcuni bambini nascono con una generale tendenza all’inibizione del comportamento davanti a stimoli nuovi o non-familiari. Quando a questa caratteristica si associa uno stile generale di tipo introverso ed elevati livelli di ansia sociale, possono emergere condizioni di blocco emotivo del bambino, fino all’instaurarsi di un vero e proprio mutismo selettivo cronico.
Il sintomo principale è la mancanza di linguaggio nelle interazioni sociali con adulti e/o coetanei quando invece, nelle relazioni più strette (tipicamente genitori, fratelli e sorelle), il bambino può essere in grado di parlare e conversare senza problemi. Può quindi succedere che il bambino con mutismo selettivo non abbia mai fatto sentire la sua voce alle insegnanti e si attrezzi con modalità più o meno creative per rispondere e partecipare alla vita di tutti i giorni (ad esempio, gesticolare, indicare qualcun altro che parli al suo posto, bloccarsi senza pronunciare nulla).
Crescendo, i sintomi specifici del mutismo selettivo possono anche scomparire. Purtroppo però, non si sa ancora molto sugli esiti a lungo termine di questa condizione, cioè nell’età adulta. A volte possono infatti esitare problematiche più generalizzate di ansia sociale o stili di personalità per natura poco inclini al contatto interpersonale. Rimane comunque la preoccupazione che destano questi bambini che, per gran parte dell’età infantile (tipicamente tra i 4 e i 10 anni), evidenziano un livello di disagio rilevante che può ovviamente avere ricadute non positive sui successivi cicli della vita.
Non vanno poi sottovalutate altre condizioni dell’età evolutiva che possono o meno associarsi al mutismo selettivo. In età prescolare alcuni di questi bambini hanno problematiche del linguaggio, anche difficili da trattare per la scarsa disponibilità ad usare il linguaggio nei contesti riabilitativi. Dalla scuola primaria, l’eventuale difficoltà di apprendimento (DSA) della lettura può essere anche difficile da individuare, ad esempio per il rifiuto di leggere a voce alta. Non è chiaro se tali fragilità cognitive siano esse stesse concausa o ulteriore fattore di rischio per il mutismo selettivo: indipendentemente da ciò, va chiaramente posta attenzione allo sviluppo globale dell’individuo e quindi al riconoscimento anche di queste eventuali difficoltà ulteriori.
solo recentemente la letteratura internazionale offre studi sistematici su questa condizione clinica
Quali aiuti rivolgere a queste famiglie? Come comportarsi nella gestione in classe di bambini con queste caratteristiche? Diciamo innanzitutto che solo recentemente la letteratura internazionale offre studi sistematici su questa condizione clinica. Un primo elemento cruciale è l’efficacia generale del trattamento. Bambini che hanno ricevuto un aiuto specifico di tipo clinico mostrano livelli di miglioramento significativi. Al contrario, l’assenza di intervento tende a far cronicizzare la situazione: è possibile avere una persistenza del mutismo selettivo anche in età preadolescenziale oppure è frequente la presenza di disagi di ambito ansioso o altre condizioni psicopatologiche. Da non sottovalutare è poi l’arco temporale che intercorre tra la presenza dei primi sintomi (evidenti di solito tra i 3/4 anni) e l’età a cui solitamente si interviene (raramente prima dei 6 anni): accorciare questo spazio di tempo sembra essere critico per migliorare l’esito del lavoro clinico.
gli interventi più efficaci sembrano essere a base cognitiva e comportamentale
Gli interventi più efficaci sembrano essere a base cognitiva e comportamentale, con ampio utilizzo della psico-educazione a coinvolgere il bambino, i genitori e gli educatori presenti (tipicamente, gli insegnanti di scuola o altre figure stabili che vedono il bambino nella routine delle sue attività). Con bambini prescolari di solito il lavoro è rivolto esclusivamente agli adulti: cioè si consigliano loro attività e atteggiamenti specifici da tenere con il bambino. Dai 6 in avanti sembra importante coinvolgere direttamente anche il bambino per definire obiettivi e strategie specifiche, sempre congiuntamente ad un coinvolgimento degli adulti, spesso denominato Parent & Teacher Training.
Un primo aspetto fondamentale del lavoro clinico è la descrizione del sintomo in termini funzionali ai genitori e agli educatori: l’ostinazione a non parlare rappresenta un segno di disagio, una difficoltà nel gestire le proprie relazioni. Successivamente vanno concordate strategie “facili” per la comunicazione che non contemplino l’uso della parola: gesti particolari che permettano al bambino di esprimersi oppure uso di immagini per la comunicazione. Questo nell’idea di aprire canali di comunicazione “extra-verbali” che rimandino al bambino l’idea di una comunicazione utile e possibile.
sono importanti gli elementi di “buona accoglienza” e le strategie di desensibilizzazione
A questo vanno aggiunti numerosi elementi di “buona accoglienza”: evitare domande che possano mettere a disagio per la necessità di risposte complesse, evitare la classica sensazione di essere “sotto la lente di ingrandimento” (non interpellarlo per primo, non metterlo al centro della classe, non coinvolgerlo per esercizi dimostrativi, …). Attivato un livello di comunicazione non verbale, andranno rinforzati e gentilmente modellati scambi vocali via via più ampi: ad esempio, partendo dalla possibilità di usare risposte brevi (/ok/, /sì/, /no/, /ancora/), altamente contestualizzate (nel pasto, in una determinata attività…) e magari scegliendo poche persone “speciali”, cioè sintonizzate e naturalmente più disposte verso il bambino (un insegnante che abbia già un buon rapporto, un amico “buddy”, …).
Interessanti varie strategie di desensibilizzazione per le quali, ad esempio, si può allenare il bambino a parlare con le persone con cui parla con naturalezza (genitori) in contesti solitamente inibenti (la palestra, la classe scolastica, …). Il lavoro clinico psicoterapeutico dovrebbe avere focus ben precisi e condivisi, sia con gli adulti che con il bambino in questione. Ad esempio, già in età prescolare andrebbe esplicitata l’idea che l’obiettivo generale è la possibilità di parlare in tutti i contesti di vita, concordando ampi rinforzi ad ogni conquista fatta. Alcuni modelli di lavoro contemplano anche cicli di training fisiologico, che potrebbero permettere al bambino di attivare strategie di rilassamento muscolare o tecniche di respirazione utili alla gestione della montata emotiva, che spesso contraddistingue le situazioni a forte stress sociale.
Va poi considerato che la conquista della “parola in pubblico” potrebbe non eliminare la sensazione di ansia sociale e imbarazzo, spesso alla base del mutismo selettivo. Motivo per cui è consigliabile proseguire la terapia con obiettivi psicologici legati al fronteggiamento delle situazioni difficili e stressanti, specie nei cambiamenti del ciclo di vita (ad esempio, passaggio di grado scolastico). Come è evidente, si tratta di percorsi articolati: difficile fare una previsione in termini di tempistica. Gli studi scientifici riportano durate variabili dei trattamenti, da qualche mese ad oltre un anno.
non sempre il Servizio Pubblico è ben attrezzato per questi casi
Purtroppo non sempre il Servizio Pubblico è ben attrezzato per questi casi, perché si tratta di situazioni non frequenti (decisamente più rare dei Disturbi del Linguaggio e dell’Apprendimento) e apparentemente meno gravi di altre problematiche dello sviluppo (ad esempio, Autismo). Il risultato è che spesso le famiglie e gli educatori della scuola trovano risposte non del tutto pertinenti o poco efficaci, andando ad ampliare l’arco temporale tra il riconoscimento dei sintomi e l’attivazione di una cura appropriata.
Come per la gran parte delle difficoltà dell’età evolutiva, servirebbe invece una forte attivazione collettiva per accogliere, comprendere e aiutare il bambino e la famiglia. Creando una rete di specialisti dello sviluppo non solo per “il bisogno” (Pediatria, Ospedale, Neuropsichiatria infantile) ma anche e soprattutto attivi nei contesti di vita dei bambini (ad esempio, Psicologo Scolastico).
Il professor Roberto Padovani che ha scritto l’articolo è psicologo e psicoterapeuta e lavora presso l’AUSL di Modena con incarichi al Centro Autismo e al Servizio NPIA