Il metodo scientifico prende in considerazione parametri quantitativi e replicabilità. Per corsivo e compiti a casa potrebbe essere – davvero – molto utile applicarlo. Ecco perché.
Premessa: il fulcro centrale del metodo scientifico (sperimentale) si ritrova nel concetto di “pratica basata sulle evidenze” (Evidence-Based Pratice) introdotto negli anni ’80 in varie discipline mediche, con l’obiettivo di garantire ai cittadini servizi sanitari efficaci e con risultati dimostrati scientificamente, minimizzando i costi e i danni di progetti fallimentari, sfruttando la grande quantità di ricerca scientifica disponibile.
Si tratta di un approccio fondamentalmente “ateorico”, che non prende in considerazione analisi qualitative o riflessioni personali/professionali. Vengono al contrario considerati molto importanti i parametri quantitativi e il rigore metodologico con cui l’applicazione dello studio/progetto è replicabile in altri contesti.
Allo stato attuale la scuola italiana applica solo raramente questo paradigma, che sarebbe invece il fulcro centrale del metodo scientifico. In altre parole, la scuola italiana insegna il metodo scientifico ma non lo applica al suo interno. Conviene affrontare la questione con due esempi pratici, basati sulla classica contrapposizione tra ideologie differenti (spesso mai verificate), da scardinare con progetti ad alto rigore metodologico e quindi replicabili con relativa facilità: l’insegnamento del corsivo e i compiti a casa.
esempio uno: l’insegnamento del corsivo
Insegnamento del corsivo: esistono posizioni ideologiche e non dimostrate alquanto differenti circa l’insegnamento del corsivo alla scuola primaria.
La posizione più estrema è probabilmente l’idea che la scrittura in corsivo possa attivare meccanismi mentali superiori in vari ambiti, consentendo di raggiungere e migliorare più in generale la performance cognitiva, gli apprendimenti scolastici e la salute mentale dei bambini. Non esistono evidenze scientifiche in questa direzione ma si tende ad associare questa posizione ideologica alla letteratura dei “mirror neuron” (neuroni specchio): cioè all’ipotesi che alla base di molte competenze cognitive (linguistiche e sociali soprattutto) possa esserci la rappresentazione delle azioni motorie. Quindi, seguendo questo ragionamento, si potrebbe dedurre che è importante insegnare da subito il corsivo, potenziarlo e riabilitarlo in caso di difficoltà anche consistenti (ad esempio in caso di disgrafia) perché “scrivere bene migliora il pensiero”.
All’opposto, esiste un’altra posizione netta che reputa il corsivo un allografo ormai inutile, visto che l’espressione scritta può avvenire in modo altrettanto chiaro con altre forme (stampato maiuscolo) o tramite la video-scrittura. Questa idea deriva in gran parte dai testi relativi agli alunni con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA): bambini con difficoltà di organizzazione motoria del tratto grafico possono risultare estremamente resistenti all’insegnamento del corsivo con reazioni di frustrazione anche profonde. La semplice dispensa dall’uso del corsivo può aiutarli in modo significativo, come peraltro avviene anche in bambini senza disgrafia conclamata. Seguendo questo ragionamento, verrebbe intuitivo valutare di presentare il corsivo in modo blando, senza stress aggiuntivo: se i bambini lo apprendono rapidamente tanto meglio, in caso opposto si potranno cercare alternative che comunque potrebbero essere usate liberamente da tutta la classe.
Dal punto di vista scientifico e metodologico, in Italia abbiamo la fortuna di avere studiosi e clinici che si sono appassionati al tema (ad es., Stefania Zoia, Laura Bravar, Michela Borean, Giovanni Bilancia, Beatrice Bertelli, Carlo Di Brina, Giovanna Rossini). Pur non costruendo un modello didattico di insegnamento del corsivo, si è giunti a una serie di conclusioni che non possono essere trascurate:
1) la scrittura in corsivo rappresenta un processo cognitivo complesso che integra abilità di base a prevalente funzione visuo-spaziale e motoria. Nulla ha a che fare con abilità di altro calibro (linguaggio, pensiero superiore, ragionamento) e può pertanto essere selettivamente deficitario (Disturbi della coordinazione motoria, Disgrafia);
2) essendo un’abilità complessa richiede l’uso di parecchie funzioni cognitive di base: se ne deduce che nelle fasi iniziali dell’alfabetizzazione, proporre il compito di scrittura in corsivo, consumerebbe risorse cognitive che sarebbe invece utile dedicare ad altro (decodifica della lettura, automatizzazione delle regole ortografiche).
Con queste due semplici premesse, è evidente che la classe prima primaria non dovrebbe essere il luogo di insegnamento del corsivo. A partire dalla seconda primaria, specie nelle fasi iniziali e a maggior ragione nei bambini con qualche livello di fragilità cognitiva e/o con bisogni educativi speciali (BES) poi chiaramente distinti gli obiettivi specifici delle proposte didattiche: decodifica di lettura vs. ortografia vs. comprensione del testo vs. apprendimento del corsivo.
Può quindi risultare chiaro come sarebbe utile costruire progetti a base scientifica per comprendere come proporre il corsivo. Ad esempio, creando classi sperimentali, sulla base di queste considerazioni: a) proposta del corsivo a partire dalla seconda primaria, b) allenamento dei tratti grafo-motori del corsivo in compiti senza altre complessità aggiuntive e sfruttando peraltro vari materiali già pronti per la lingua italiana (ad es. Il corsivo dalla A alla Z, edito da Erickson), c) monitoraggio dei bambini che faticano nell’apprendimento di questo sistema per proporre eventuali potenziamenti mirati e/o per proporre la velocizzazione dell’uso della tastiera (ad es., Scrivere veloci con la tastiera, edito da Erickson), d) valutazione dell’esito a fine seconda primaria e a fine terza primaria dei progetti introdotti.
I bambini che hanno partecipato a questi progetti verrebbero qualificati come “gruppo sperimentale” e quindi confrontati con vari altri gruppi di bambini in cui le maestre hanno utilizzano le posizioni ideologiche già descritte in precedenza. Si tratterebbe di un progetto a base scientifica (cioè al gruppo sperimentale vengono proposte attività già condivise dalla comunità scientifica) che ci permetterebbe di comprendere meglio come impostare la didattica per i nostri bambini evitando di lasciare il corpo docente a riflessioni personali non sempre pertinenti.
esempio due: i compiti a casa
Compiti a casa: ulteriore campo facilmente aggredito da posizioni ideologiche estreme. Chi ritiene il compito a casa un elemento fondamentale della cultura scolastica e di miti pedagogici forti: “il compito è necessario per consolidare gli apprendimenti”, “a casa puoi recuperare quello che non sei riuscito a completare a scuola”. Al contrario, chi ritiene il compito a casa un elemento didattico inutile e discriminante (www.bastacompiti.it) perché appesantisce l’adattamento per le situazioni già fragili per costituzione (ad es., DSA) o per livello socio-culturale (ad es., famiglie straniere in cui i genitori, non padroneggiando l’italiano, non possono aiutare i figli).
Dal punto di vista scientifico la letteratura su questo argomento è meno accessibile: tendenzialmente in lingua inglese e su riviste scarsamente diffuse nelle scuole italiane (ad es., Journal of School Psychology, Journal of the Learning Sciences). Una lettura di questi studi mostra che l’uso dei compiti a casa andrebbe altamente personalizzato in funzione di una serie di fattori: necessità di potenziamento didattico, analisi del momento evolutivo del bambino e integrazione con altre attività, coinvolgimento del genitore con specifiche strategie (orientamento alla motivazione piuttosto che alla prestazione). E’ quindi evidente che l’uso dei compiti a casa, per essere didatticamente efficace, dovrebbe possedere caratteristiche specifiche che andrebbero studiate e divulgate sia nel corpo docente che nei genitori, visto che spesso sono proprio questi ultimi a dare supporto concreto ai bambini. E’ chiaro che allo stato attuale questi elementi “moderni” non sembrano facilmente integrabili nel contesto italiano.
Anche in questo caso, il passo successivo per migliorare l’offerta didattica, dovrebbe essere quello di costruire progetti con metodologie differenziate e monitoraggio attivo dei percorsi. Costruendo ad esempio classi con orientamenti specifici da confrontare. Ad esempio: 1) nessuna assegnazione dei compiti a casa, 2) uso tradizionale dei compiti, 3) uso personalizzato in funzione di fattori bio-psico-sociali attinenti al bambino e alla sua famiglia, 4) uso dei compiti a casa con mediazione di Parent & Teacher Training in merito a specifiche strategie di accompagnamento. Nell’arco di pochi anni si avrebbe a disposizione un’ampia prospettiva basata sull’evidenza, con dati verificabili in termini di performance scolastica e adattamento degli alunni, della famiglia e del corpo docente. Questo permetterebbe a tutti di fare chiarezza sul tema dei “compiti a casa”.
quello che manca è un coordinamento organizzativo alla base, che faccia da tramite tra la vasta letteratura scientifica basata sull’evidenza e la costruzione e verifica dei progetti scolastici
I progetti descritti, che rappresentano piccoli esempi di un’ampia gamma di possibili azioni didattiche a base scientifica, appaiono peraltro facilmente attuabili: con grande probabilità vari istituti agiscono già secondo modalità di questo tipo. Quello che manca è un coordinamento organizzativo alla base, che faccia da tramite tra la vasta letteratura scientifica basata sull’evidenza e la costruzione e verifica dei progetti scolastici. In alcuni casi la letteratura da approfondire è facilmente disponibile e accessibile, anche in lingua italiana, per la presenza di autori che si sono già interessati al tema. In altri casi va riconosciuta una concreta difficoltà di accesso alla conoscenza scientifica, complessa da reperire e da integrare nel sistema scolastico. Questo ultimo aspetto è centrale e non può ricadere sul singolo operatore scolastico, che deve essere esso stesso tutelato e accompagnato.
Il professor Roberto Padovani – che ha scritto l’articolo – è psicologo e psicoterapeuta e lavora presso l’AUSL di Modena con incarichi al Centro Autismo e al Servizio NPIA