Siamo l’animale che narra
Una riflessione scientifica sulla peculiare necessità degli esseri umani di raccontare (e ascoltare) storie
Per molti anni ho fatto la contastorie. Giravo scuole e piazze raccontando storie. Ho sempre notato che il pubblico - sia quello dei bambini sia quello degli adulti - era stregato dalla narrazione. Io stessa ero affascinata dai contastorie.
Per anni e a più riprese ho scritto e riflettuto sulla fascinazione della narrazione. I miei studi di Storia del Teatro e dello Spettacolo mi confermavano che la narrazione è trasversale a ogni cultura (un po’ come il Teatro di Figura, che siano burattini o ombre o marionette).
La narrazione appariva come fondamentale e necessaria per l’Uomo e non solo per la trasmissione di informazioni e tradizioni. Da qualche anno sappiamo che questa fascinazione ha un fondamento scientifico. Ma andiamo per gradi perché è un argomento oggetto di studi e aggiornamenti continui.
L’uomo è l’animale che narra. Siamo circondati di storie
I bambini inventano storie continuamente quando giocano: nelle case sugli alberi, nelle capanne e nei covi segreti, giocando “alle signore” e “alla guerra” (il gioco è narrazione), le storie stanno nei film, nella strada, nei mercati, nei tribunali, nei videogiochi e, ovviamente, nei libri.
Ma perché inventiamo, raccontiamo e ascoltiamo storie? Gli studiosi sono ormai unanimemente concordi nel sostenere che accanto all’evoluzione fisica c’è stata un’evoluzione del cervello in direzione delle storie; il fatto di essere l’animale che narra ha inciso sulla nostra evoluzione, sul modo nel quale il nostro cervello si è evoluto. La nostra passione per le storie ha plasmato il nostro cervello.
Bisogna essere cauti, lo dicevo prima, perché gli studi sono in continuo divenire e nonostante a noi piacerebbe ripercorrere la complessa strada delle neuroscienze e riallacciare le teorie letterarie alle scienze cognitive, è necessario avere cautela e procedere con lentezza, per evitare di piegare le teorie al nostro volere, come spesso accade.
Il nostro cervello è un processore di storie
Perché se Il nostro cervello, come dicono le neuroscienze, è un processore di storie e Il comportamento narrativo ha di fatto dato forma e fortemente condizionato lo sviluppo delle capacità cognitive dell’Homo Sapiens allora diventa affascinante studiare, per quanto è possibile, come tutto ciò sia accaduto.
Aprirebbe nuovi orizzonti anche negli studi sull’apprendimento; cosa che, di fatto, sta già accadendo. Per poter sapere come, quanto e quando i primi Homo Sapiens narrassero, abbiamo bisogno di ritrovamenti fossili. Se questo appare ovvio per i vari utensili, lo è meno per il comportamento narrativo; è proprio verro che non ci sono giunti i fossili del tale comportamento?
Michele Cometa, docente di Storia comparata delle culture e Cultura visuale presso l’Università degli Studi di Palermo, nel suo amplissimo e affascinante studio analizza la narrazione nel contesto della teoria dell’evoluzione e delle scienze cognitive.
Lo studioso parte dal legame tra la produzione di utensili (in particolare i bifacciali) e lo sviluppo di capacità narrative; narra come lo scolpire alcuni utensili, secondo una determinata catena operativa che prevede una coscienza dell’operato e una consapevolezza del Tempo e dei tempi, abbia influito sulla costruzione narrativa del mondo.
Gli studi sperimentali su questo tipo di procedure hanno dimostrato che le parti del cervello che presiedono alla scheggiatura sono le stesse parti che presiedono alla lingua, alla costruzione della lingua del mondo.
Entriamo in un campo di studi ancora in divenire e complesso che affonda le radici negli studi di antropologia, linguistica e soprattutto in una nuova disciplina: la biopoetica, ovvero la disciplina che si propone di far convergere scienze del bios e teoria letteraria nel contesto più ampio di uno studio del comportamento narrativo e della nicchia ecologica dell’Homo sapiens.
Le storie ci appartengono
Tutta quest’enorme quantità di studi complessi e multidisciplinari mi porta ancora una volta a riflettere su come le storie ci appartengano.
A cosa servono le storie e perché l’Homo Sapiens aveva e ha un comportamento narrativo? Sono solita dire, provocatoriamente, che leggere non serve a niente. Ma la mia è, appunto, una provocazione per cercare di pulire la lettura, soprattutto in alcune situazioni, dal didattismo. Tuttavia le storie sono servite all’Uomo – alla sua evoluzione – e se noi siamo l’animale che narra, un motivo evoluzionistico deve esserci.
Jonathan Gottschall, professore di letteratura e teorico della letteratura statunitense e autore di L’istinto di narrare (traduzione di Giuliana Maria Olivero, Bollati Boringhieri, 2017), fa sue le teorie di Joseph Carroll e riduce il comportamento narrativo dell’Uomo a una sorta di simulatore di volo.
Così come il pilota usando il simulatore di volo si allena a volare, l’Uomo attraverso le storie si allena alla vita. Per questo, secondo Gottschall, le storie hanno uno schema fisso che vede il protagonista affrontare delle difficoltà incontrare un aiutante e risolvere il problema.
Insomma le storie ci insegnano a vivere e ad affrontare i problemi. A mio parere questa teoria è riduzionistica e fa della letteratura (che è il prodotto narrativo più recente dell’Uomo) una sorta di manuale.
Cometa va più a fondo e ci parla dell’antropologia dell’ansia. L’Uomo è l’unico animale che ha il senso del tempo e della finitezza. La mia gatta, che dorme di là al sole, ha paura della morte ma non lo sa.
Non si pone il problema della sua finitezza; risponde istintivamente ai pericoli. L’Uomo per motivazione legate alla struttura del suo cervello ha consapevolezza della propria finitudine e le storie e la narratività ci hanno aiutato a sopravvivere e ci aiutano a vivere, ma non perché ci consentano di inventare mondi finti ma per fare e dare ordine al Mondo.
L’Uomo narra per fare ordine
L’Uomo narra per fare ordine nell’Universo e per nominare il Mondo (Adamo nella Bibbia dà nome alle cose); senza quest’ordine non potrebbe sopravvivere perché sprovvisto di quell’istinto che sostiene gli altri animali. Trovo affascinante e bellissimo che questa funzione specie-specifica sia il nostro modo di stare nel mondo e di abitarlo (il nostro abito).
Concludo questa prima parte del mio contributo facendo mia una riflessione che Michele Cometa accenna alla fine dello studio citato. Prendendo spunto da alcuni scritti di Walter Benjamin tra cui un brano de L’Infanzia berlinese, lo studioso palermitano accenna al potere terapeutico della narrazione, in particolare della narrazione pre-verbale e gestuale.
E io non posso non pensare allo sciamano e al valore curativo della sua danza che è narrazione, al gesto curativo del dio e del sacro; attenzione, ho detto cura non medicina!
Dove stanno le storie oggi?
Leggere gli studi sull’animale narrante, sul cervello e sulla narratività nell’evoluzione mi ha portata a riflettere ancora una volta su dove stiano le storie oggi nella nostra società.
Mi sembra che, svuotando di storie il mondo, l’Uomo si sia ridotto a cercarle in altri luoghi meno curanti e svincolati dallo spirito; questo sta influendo moltissimo sui bambini che sembrano sempre più in balia di un razionalismo adulto e nichilista.
Le citazioni in corsivo sono in Michele Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria, Raffaello Cortina Editore, 2017