Indossare la cultura? Una storia digitale della moda

100 artisti decorano una scuola di Parigi durante un festival dedicato all’arte urbana, il risultato è spettacolare
Cosa vuol dire insegnare a vedere? E quanto è importante per un'educazione artistica che non si limiti alla nozionistica?
Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
Il concetto di nemico viene affrontato in special modo iniziando a studiare la Seconda Guerra Mondiale, tema di particolare interesse per gli studenti della scuola secondaria di primo grado.
Di Seconda Guerra Mondiale tutti vogliono poter parlare poi all’esame, come se tutto quello che è venuto prima – ma anche dopo e durante – non sia degno della medesima attenzione.
Io credo che per far comprendere l’atrocità di una guerra che ha provocato oltre quaranta milioni di morti, ma che ancora esercita tutto il suo “fascino”, si debba riflettere su alcuni concetti di base.
Uno di questi, il principale, è il concetto di “nemico”.
Per questo, quando in classe si parla di Prima Guerra Mondiale, argomento non particolarmente atteso, credo sia importante porre ai ragazzi alcuni basilari spunti di riflessione.
Non solo soffermarsi su motivazioni e schieramenti contrapposti, quindi, bensì provare a far comprendere quanto l’idea di “nemico” abbia provocato una carneficina mai vista prima in termini di vittime militari.
Pur di combattere e annientare il “nemico”, innovazioni scientifiche e tecnologiche della Belle Epoque sono state piegate a precise strategie belliche, quindi utilizzate non più per migliorare il benessere dell’umanità, bensì per provocarne uccisioni e stragi.
Pur di opporsi al “nemico”, il soldato al fronte ha dovuto sopportare sofferenze e atrocità indicibili. Un “nemico” dalle fattezze, dallo stato d’animo e dalle condizioni esistenziali perfettamente simili ai suoi. Per far comprendere quanto sia assurdo doversi ritrovare a combattere contro i propri simili, sono state affiancate allo studio del manuale attività didattiche specifiche.
Tra queste, la visione – parziale o integrale – di alcuni film cult, quali Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrik, Uomini contro di Francesco Rosi e La Grande Guerra di Dino de Laurentis.
Attraverso ricostruzioni storiche magistrali, questi film offrono un’ottima testimonianza di ciò che hanno dovuto subire i soldati al fronte e di quanto fosse facile morire sotto la furia dei colpi nemici e perfino a causa di rivalse progettate dai comandanti del proprio esercito.
Così come il cinema, anche la letteratura offre ottimi spunti per riflettere sull’idea di nemico che avevano in mente i soldati al fronte, o meglio, che i governanti e i sostenitori della guerra volevano che i soldati al fronte avessero in mente. Leggendo romanzi come Un anno sull’altipiano di E. Lussu e Niente di nuovo sul fronte occidentale di E.M. Remarque, appare ben chiaro quanto coloro che si erano arruolati, convinti di venir omaggiati come eroi, rimanessero delusi e sconvolti per le terribili condizioni che si erano ritrovati a vivere.
Leggendo le poesie di Giuseppe Ungaretti (Soldati, Fratelli, Sono una creatura, San Martino del Carso, Veglia, solo per citarne alcune) questa idea di precarietà emerge ancora di più in tutta la sua atrocità.
Dalle parole di Lussu, Remarque e Ungaretti si comprende che i soldati si pongono domande cruciali:
Su queste domande occorre far riflettere (e riflettere con) i ragazzi. Dal libro illustrato Pidocchiosa prima guerra mondiale possiamo leggere e osservare pagine in cui appare evidente che in qualsiasi schieramento l’inferno da sopportare era il medesimo.
Fame, freddo, sporcizia, alcool, shock, traumi e morte vengono vissuti sulla propria pelle ogni singolo giorno da ogni singolo soldato. Ma cos’è che aveva spinto gli uomini ad arruolarsi e gli eserciti a massacrarsi? Risposta: la propaganda.
Facciamo osservare in classe manifesti di propaganda appartenenti a tutti gli schieramenti, in cui il nemico viene presentato con le fattezze di una creatura mostruosa (inglesi raffigurati come ragni giganteschi e, vedi immagine, tedeschi come serpenti velenosi).
I ragazzi percepiscono così come la propaganda cercasse di inculcare nell’immaginario popolare l’idea che il nemico fosse un mostro, una bestia immonda da eliminare senza pietà (anticipazione, che, purtroppo, la storia vedrà ripetersi in altre tremende occasioni).
Ma di nuovo cinema e libri possono diventare l’occasione per riflettere su quanto sia necessario opporsi al clima di odio e di mistificazione della realtà diffuse con la propaganda.
Leggere poesie di B. Brecht, in cui non si distingue più chi è il nemico e chi non lo è, osservare video riferiti alla “tregua di Natale”, in cui soldati di eserciti avversari hanno improvvisato una partita di calcio nella “terra di nessuno”, rappresentano spunti di riflessione estremamente efficaci.
Perché è necessario guidare i nostri studenti verso discussioni e negoziazioni di significati in cui venga dato valore ad un desiderio universale di pace e al superamento dell’odio verso i propri simili.
In questa ottica, la lettura dell’albo illustrato Il nemico di Davide Calì, illustrato da Serge Bloch, si configura come un’attività didattica di sicuro impatto.
Nell’albo un soldato di una guerra imprecisata riesce a penetrare nella trincea nemica, rimasta temporaneamente vuota. Osserva fotografie e oggetti che rimandano ad affetti familiari e si rende conto che quel nemico contro cui sta combattendo prova le sue medesime sofferenze. L’albo si conclude con il lancio di un biglietto di carta all’interno di una bottiglia, che andrà a sostituire l’utilizzo di qualsiasi altro strumento di morte.
Nel libro non si dice qual è il contenuto del messaggio scritto nel biglietto. Un’ottima occasione per fare in modo che a scrivere quel contenuto del messaggio siano i ragazzi stessi.
Se siete interessati/e ad altre proposte laboratoriali a tema storia, leggete questo articolo!
Foto di copertina by Stijn Swinnen su Unsplash
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Quando si parla di laboratorio vengono in mente provette e alambicchi, strumenti utili allo studio delle scienze. Ma il laboratorio
Domandarsi in che anno ci troviamo può sembrare banale e a tratti scontato ma, in realtà, riflette una questione complessa
Inutile negarlo: nell’apprendimento della storia un docente abile narratore fa la differenza. Il fascino suscitato dalla presentazione degli avvenimenti e una narrazione capace di rendere evidenti le connessioni tra i fatti sono di certo fondamentali per lo studio, la rielaborazione e l’interiorizzazione degli argomenti da affrontare a casa.
Ma non bastano. Per intervenire sullo spirito critico dei nostri studenti e agire sul coinvolgimento emozionale, vera garanzia di apprendimento solido e duraturo, occorre andare oltre. Occorre far sperimentare alla classe un tipo di didattica attiva e laboratoriale. Sì, anche nello studio della storia.
Ma cosa vuol dire fare laboratorio in classe? La spiegazione che preferisco è quella di Antonia Chiara Scardicchio, docente dell’Università di Foggia:
L’espressione laboratorio non riguarda soltanto il “fare”. Affinché un insegnante riesca ad allestire un setting laboratoriale è necessario che abbia una disposizione interiore all’incertezza e all’aperto. Nel laboratorio gli studenti si pongono domande e possono andare a muoversi dentro strade di conoscenza che non abbiamo completamente previsto o programmato. Solo così il setting educativo diventa un vero laboratorio di ricerca.
Per predisporre la classe ad affrontare un laboratorio di storia occorre, per prima cosa, sollecitare gli studenti a recuperare conoscenze pregresse e a compiere anticipazioni.
In una classe seconda della scuola secondaria di primo grado, ad esempio, verrà affrontato lo studio delle scoperte geografiche di XV-XVI secolo e numerosi possono essere gli stimoli in grado di ricreare in classe un laboratorio di ricerca.
Sempre efficace cominciare attività di questo genere fornendo semplici sollecitazioni da far scrivere su post-it, raccolti e condivisi:
Gli appunti su post-it, se raccolti su cartellonistica da parete, aiuteranno gli studenti a rendere visibili in itinere i processi di pensiero (suggerimento tratto dalla metodologia MLTV – Making Learning and Thinking Visible).
Il vero avvio del nostro laboratorio di storia prevede la consultazione di carte geografiche e nautiche degli anni rinascimentali, così da far meglio comprendere quali possano essere stati i fattori alla base del clamoroso errore commesso da Colombo. A seguire, confronto con proiezioni di carte e planisferi attuali di uso quotidiano.
Far osservare immagini e analizzare fonti iconografiche si rivelano sempre attività didattiche di sicuro impatto, quindi sarà interessante fornire riproduzioni grafiche o fotografiche di astrolabi, bussole o imbarcazioni tipiche delle navigazioni a lungo corso, ma anche foto di statue o disegni raffiguranti Colombo e l’impresa da lui compiuta.
Allo stesso modo, si prestano ad annotazioni su cui impostare dibattiti e condivisioni le osservazioni di video tematici da reperire sui numerosi canali didattici e divulgativi presenti in rete, da assegnare eventualmente anche in modalità flipped-classroom.
Per una classe che fa laboratorio di ricerca importante è la consapevolezza dell’apporto del gruppo, quindi assegnare lavori da svolgere in modalità collaborativa si rivelerà di sicuro effetto. Suddividendo la classe in piccoli gruppi, potranno essere assegnati diverse tipologie di documenti scritti sia all’epoca di Colombo che in periodi molto più recenti.
Nei gruppi i documenti saranno letti, analizzati e, come step finale, esposti alla classe, così che informazioni apprese e riflessioni che ne scaturiscono possano essere svolte in modalità collettiva.
Fonti scritte che ben si prestano a simili attività potranno essere reperite sia su sezioni di manuale apposite che su web. Di ottime ve ne sono anche su siti di divulgazione nazionale rivolti soprattutto ai ragazzi e, comunque, supportare i gruppi nel lavoro di reperimento di fonti scritte affidabili in Internet vuol dire impostare attività di educazione digitale di grande valenza formativa e didattica.
Riferire notizie su argomenti appresi mette in esercizio le capacità espositive e, nel corso dell’esposizione orale, saper mettere in relazione temi appresi e informazioni ricavati dalle attività laboratoriali incidono sulle capacità critiche e rielaborative.
Su tali competenze si può intervenire sperimentando in aula un debate, ossia dividendo la classe in due schieramenti contrapposti che si sfideranno a suon di tesi e antitesi. Qualche esempio di sollecitazione in grado di dare avvio a un debate:
Vince il gruppo che riesce a sostenere davanti a una giuria le argomentazioni più convincenti. Anche in questo caso sarà bene far annotare tesi e antitesi su post-it, non solo per rendere visibili i processi di pensiero, ma anche per avere modo di seguire ragionamenti tesi ad avvalorare opinioni, l’una a contrasto dell’altra. Tali procedimenti risulteranno anche utili in fase di impostazione e stesura dei testi argomentativi.
Facendo ricorso a canzoni, giochi e meme gli studenti mettono in campo numerose competenze tese a dimostrare una corretta assimilazione dell’argomento e un’ottima capacità rielaborativa. Anche questo è fare laboratorio.
Possiamo, ad esempio, far ascoltare le parole della canzone Cristoforo Colombo di Guccini, cercando di far individuare nel testo le informazioni storiche apprese, ma anche la caratterizzazione e l’interpretazione del personaggio che ne dà il cantautore.
Facendo leva sull’inventiva, sul talento artistico e sulla creatività presenti all’interno dei gruppi, possiamo chiedere di realizzare disegni, vignette, produzioni in cartone o in materiale di uso comune che abbiano come protagonista Colombo e le implicazioni delle sue scoperte. Alcuni degli esempi di consegne su cui i ragazzi possono scegliere di misurarsi:
Alla fine di attività composite come quelle appena viste, mai dimenticarsi di dedicare tempo alla metacognizione finale. Occorre fare in modo che i ragazzi riflettano su quanto hanno appreso e come lo hanno appreso, così da permetterne la rilevazione dei punti di forza, ma anche dei punti di debolezza.
Le sollecitazioni saranno formulate con domande semplici, ma finalizzate a riflettere sui processi di pensiero e sulle fasi operative in cui tali processi sono stati coinvolti:
Il coinvolgimento attivo ed emotivo raggiunto con attività di laboratorio di questo genere assicurerà con maggior evidenza un apprendimento consolidato e stabile nel tempo. Parola delle neuroscienze:
Avere un efficace ‘timone emotivo’ è fondamentale, in particolare per fare in modo che gli studenti siano in grado di utilizzare la conoscenza in modo efficace. I processi emotivi e cognitivi interagiscono tra loro influenzando l’apprendimento e il ragionamento”, anche perché “è neurobiologicamente impossibile costruire ricordi, impegnarsi in pensieri complessi o prendere decisioni significative senza emozioni.
Mary Helen Immordino-Yang, neuroscienziata
Foto di copertina by Dariusz Sankowski su Unsplash
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La didattica laboratoriale” nasce dalla consapevolezza che i bambini imparano con maggiore facilità attraverso un fare concreto: proposta di laboratorio
Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
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Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
Quando si parla di laboratorio vengono in mente provette e alambicchi, strumenti utili allo studio delle scienze. Ma il laboratorio
Dice Matteo Corradini che c’è una bella differenza tra la Fatina dei dentini e un racconto della Shoah. La cosa può sembrare ovvia, però Matteo Corradini dice anche che, girando tante scuole e parlando di memoria con tanti studenti, tra la Fatina e la Shoah lui ha trovato alcune connessioni. Un paio di collegamenti che a me sono sembrati bellissimi. I bambini, per esempio.
In fondo, se ci pensate, i bambini sono gli stessi: un po’ più grandi quelli a cui diamo qualche particolare in più sulla Shoah, un po’ più piccoli gli altri, ma sono gli stessi. E allora è evidente che, dietro ogni cosa che riguarda i bambini e le bambine, c’è la cura che mettiamo nel raccontare. E anche noi siamo un collegamento. Forse più noi dei bambini.
Spesso ci siamo sentiti dire che bisogna ricordare per evitare che il passato si ripeta. Ricordare per evitare il ritorno del buio. Per me non è così, a me questa idea non ha mai convinto. La memoria non è un’assicurazione sul futuro e mi sembra che le prove di questa mancanza di automatismo, intorno a noi, non manchino. E allora perché è importante ricordare? Perché è importante che chi racconta il passato non smetta di farlo?
La mia personalissima risposta a questa domanda è un luogo fisico. Si chiama Villa Emma e si trova in un paese vicino Modena, Nonantola. Una villa come tante, ma che nel 1942 ha ospitato una settantina di bambini e ragazzi ebrei in fuga dalla Germania. E’ la storia di tutto un paese che ha aperto le porte delle case, dei negozi, dei fienili e anche del seminario, per nascondere gli ebrei. E’ la storia di un prete e di un medico che hanno stampato documenti falsi per farli fuggire. Ed è la storia, soprattutto, delle sarte che in poco tempo hanno cucito 40 cappotti, tutti uguali, per confondere le guardie con la parvenza di una gita scolastica.
Un racconto anomalo, straordinario anzi. Oggi, in diverse parti del mondo, i discendenti di quei bambini e di quei ragazzi si stanno organizzando per non disperdere il ricordo del coraggio che la popolazione di Nonantola dimostrò nel 1943.
Ecco, è questo il punto del ricordo, della memoria. Accanto alla tragedia dovremmo secondo me raccontare il coraggio, la responsabilità di chi ha visto, ma non ha lasciato correre. Di chi non si è voltato dall’altra parte. La Shoah non può restare, unicamente, la storia di chi ha subito lo sterminio: se così fosse le vittime resterebbero sole, ancora una volta. La Shoah è anche la storia di tutti gli altri, di chi c’era e ha fatto. Di chi c’era e non ha fatto. Di chi è venuto dopo e, sulla base di quell’esempio, deve decidere se fare o se restare a guardare.
Parlare del passato vuol dire assumere una responsabilità. Perché attraverso il racconto che facciamo, la prospettiva che di volta in volta assumiamo, proviamo a cambiare il presente. Soprattutto noi, quelli che raccontano. Quelli che lavorano con i bambini e le bambine.
Per la bibliografia: Matteo Corradini “Tu sei memoria. Didattica della memoria: percorsi su ebraismo e Shoah alla scuola primaria”. Erickson, Trento 2022.
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Foto di Eelco Böhtlingk su Unsplash
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Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
Quando si parla di laboratorio vengono in mente provette e alambicchi, strumenti utili allo studio delle scienze. Ma il laboratorio
Una volta quando dissi ad una collega che avevo avuto il trasferimento all’Istituto Professionale, questa mi disse:” Poverina!”. Non sapeva che nell’elenco delle scuole lo avevo indicato al primo posto. Era la mia prima scelta. Proverò qui a motivarne il perché.
Insegnare italiano e storia ai manutentori meccanici sembra a volte o assurdo o impossibile. Non è facile certo. Ma non perché a priori come spesso si crede questi studenti “Non sono portati per queste discipline”. È una mistificazione e un inganno. Se mai perché spesso la loro storia pregressa di studenti li ha convinti a non esserlo, a non essere in grado né di leggere né di scrivere. Sarebbe lungo ( e doloroso per me) indagare come ció sia avvenuto, ma avviene.
Dunque spesso abbiamo davanti studenti “stanchi” di essere studenti. Delusi, demotivati, che si aggrappano alla scuola come ultima speranza. La odiano spesso ma ci vengono ugualmente e questo ci dovrebbe far riflettere molto. Il primo nostro lavoro è dunque ricostruire la motivazione. E come si fa? Si fa progettando una didattica del fare, con compiti autentici. Che vuol dire? Vuol dire prediligere prima attività didattiche laboratoriali e cercare di fabbricare senso.
Un compito si dice autentico se riveste significato non solo per chi lo propone ma soprattutto per chi lo riceve. La costruzione condivisa di significato è fondamentale non solo se si legge o si scriv,e ma appunto se lo attribuiamo ad attività ( qualsiasi ) di studio o da svolgere. Sembra facile, non lo è.
Tutti noi oramai sappiamo che si impara solo attraverso emozione, motivazione, coinvolgimento. La didattica in fondo non è altro che questo. Saper creare occasioni di apprendimento per tutti. Non per quelli che già lo fanno o lo farebbero, ma per tutti quelli che mi sono stati affidati.
Dunque tornando alle mie discipline, il primo passo è fare sì che si sentano in grado di leggere e di scrivere. Una bella sfida. Ma non perché retoricamente ( come dicono i ragazzi) è cultura, semplicemente perché è un loro diritto ed è una competenza chiave imprescindibile di cittadinanza. Tutti, proprio tutti possono leggere e tutti possono scrivere. Dipende solo da come tu lo proponi, dall’ambiente di apprendimento che crei, dalla fiducia che si respira e dalla sospensione del giudizio. Un ambiente fortemente giudicante non aiuta ad imparare.
Compito del docente non è giudicare le persone ma caso mai valutare la prestazione. Spesso invece facciamo sempre solo la prima delle due cose. Valutare vuol dire “ dare valore” non esprimere giudizi su chi esegue un compito. C’è differenza, una differenza enorme. Gli alunni non valgono “4” o “10”, non sono un numero sul registro, caso mai quei numeri rappresentano l’andamento di una prestazione che può sempre migliorare. Per questo spesso i percorsi scolastici si trasformano in profezie che si auto avverano: perché le etichette appiccicate addosso all’inizio poi spesso non si staccano più. Io cerco nel mio piccolo di incontrare persone in primis. Poi di lavorare con loro per renderle consapevoli delle loro potenzialità e del loro poter essere e quindi poter fare. Non perdo mai di vista il mio obiettivo: progettare azioni didattiche dotate di senso.
Ammetto di avere con me uno strumento potente: il laboratorio di lettura e scrittura la metodologia americana detta WRW cioè Writing and Reading Workshop. Se non l’avessi incontrata credo che farei molta e molta più fatica. Il modo di lavorare in laboratorio mi ha insegnato prima di tutto una cosa importante: la differenza tra riempire il tempo e impiegare il tempo.
Nel primo caso il focus è il docente, nel secondo lo studente. Intendo dire che la domanda chiave che noi ci dobbiamo fare come docenti è funziona? Sono efficace? Ho progettato azioni didattiche utili per chi le deve mettere in atto con me? Se così non è allora devo prima di tutto fare metacognizione sul mio modo di lavorare e di intendere l’insegnamento.
In secondo luogo con il WRW si crea un ambiente di apprendimento dove tutti possono lavorare perché si mette al centro il processo non si richiedono solo prodotti. Lì sta tutta la differenza. Lavorare sul processo è lavorare davvero sulle competenze. È smontare una finish line ( traguardo come da normativa) in step su cui agire per provare a portare TUTTI gli allievi verso quel traguardo.
Per ogni step progetto lezioni ( molto brevi) su strategie di lavoro da applicare subito. Si impara facendo non solo ascoltando. La didattica tradizionale frontale non funziona soprattutto per questo motivo: non costruisce percorsi di apprendimento ma lascia allo studente da solo la responsabilità di apprendere. Per questo in molti casi fallisce. La responsabilità invece è mia come docente e la devo condividere con lo
studente.
In pratica il WRW si configura come una didattica equitativa? Sì. Perché? Perché imposta il tempo di apprendimento a scuola e non a casa. Lavora su un apprendimento in classe per tutti e in modo laboratoriale non demandando detto tempo ad attività individuali casalinghe dove è ovvio che le disuguaglianze socio culturali fanno un’enorme differenza. Il WRW lavora nel tentativo di creare autonomia nello studente: si cerca quindi di lasciare ad ognuno il suo spazio e il suo tempo, di costruire insieme in classe un percorso che offre a tutti gli stessi strumenti ma anche la possibilità di impara ad usarli da solo nel rispetto delle caratteristiche individuali di ognuno. Si configura dunque come una didattica altamente inclusiva.
Tornando ora al problema iniziale e cioè perché insegnare italiano e storia all’istituto professionale appare chiara la risposta. Queste non sono discipline qualsiasi ma sono assolutamente ( come quasi tutte del resto) trasversali. Sono strumenti di cittadinanza. Proprio e a maggior ragione in questi istituti sono necessarie perché altrimenti toglieremm ai nostri studenti un’occasione di crescita fondamentale. Ma non perché “ è cultura” come si diceva prima. Semplicemente perché nessuno deve essere escluso dal potere e dalla bellezza che l’uso della parola conferisce a chiunque.
Il problema infatti non è sapere chi è Dante, ma se mai sapere perché Dante è oggi significativo per me, che ho 17 anni e voglio fare, ad esempio, il manutentore meccanico. È sapere cosa ci potrei fare con questo Dante, che pensieri potrei trarre dai suoi versi, che connessioni con la mia vita.
Siamo tutti convinti infatti che Dante sia imprescindibile ma spesso lo trasformiamo solo in un esercizio pedante per applicare astratte griglie interpretative. C’è molto da riflettere su questo, come si intuisce.
Nelle mie classi leggere e scrivere sono attrezzi di laboratorio come tanti altri. Vanno a riempire una cassetta virtuale che dovrebbe far parte del patrimonio di tutti, ma proprio di tutti semplicemente perché i ragazzi sono persone che devono poter operare scelte consapevoli sulla propria vita e sul proprio futuro.
Come ci ricorda sempre Vanessa Roghi, Rodari scrisse “ tutti gli usi delle parole a tutti”. Ecco: questo è il senso ultimo del lavoro che dobbiamo svolgere. Ed è nella ricerca di questo senso ultimo che cerchiamo di lavorare con fatica ma con speranza dentro alle nostre classi: dare parole a tutti perché ne facciano buon uso.
Foto di copertina di Dan Dimmock su Unsplash
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Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
Quando si parla di laboratorio vengono in mente provette e alambicchi, strumenti utili allo studio delle scienze. Ma il laboratorio
Abbiamo seguito tutti con il fiato sospeso la storia del recente ritrovamento delle 24 statue in bronzo a San Casciano dei Bagni, risvegliando l’Indiana Jones che è dentro di noi!
Un Indiana Jones che sonnecchia silenzioso ma che, non appena prendiamo in mano un oggetto in un mercatino dell’usato, svegliandosi esclama: “quanta storia avrà alle spalle?”.
A questo proposito, Pirandello scriveva: “La fantasia abbellisce gli oggetti cingendoli e quasi irraggiandoli d’immagini care. Nell’oggetto amiamo quel che vi mettiamo di noi”.
La sensazione che avevo da bambina – che gli oggetti non fossero solo oggetti ma che prima o poi potessero prendere vita, come nei film della Disney – si è trasformata nella certezza, che ho da adulta, che gli oggetti possano davvero “parlare” e “raccontare” meravigliose storie!
Non tutti però sono in grado di capire queste storie, ci sono nel mondo alcune categorie di privilegiati:
Perché quindi non partire proprio da loro per cominciare un nuovo argomento? In fondo dagli oggetti costruiti e utilizzati da una società possiamo, anche senza essere archeologi, capire tante cose… faccio un esempio! Per introdurre la civiltà dei Villanoviani, ben rappresentati dai ritrovamenti archeologici conservati nel museo archeologico di Villa Verucchio (Rimini), comincio sempre con una serie di slide di immagini degli oggetti ritrovati durante gli scavi. Sono molti infatti i ritrovamenti villanoviani provenienti dalla necropoli del Verucchio.
Prima di cominciare la proiezione, prepariamo insieme un cartellone, o predisponiamo la lavagna, per accogliere le nostre supposizioni, che verranno verificate in un secondo momento. Trattandosi di classi quinte della scuola primaria do per scontato che conoscano il concetto di traccia e di fonte storica, ma per essere sicura di lavorare su conoscenze pregresse ben sviluppate, per ogni immagine chiedo sempre: di che tipo di fonte si tratta e quali informazioni ci può dare?
Portare i bambini a ragionare sugli oggetti, e più in generale sulle fonti visive, ha molti vantaggi:
Inoltre il lavoro svolto sulla Lim e non sul libro di testo (dove spesso si trovano immagini interessanti) produce, a mio modo di vedere, un senso di lavoro di gruppo che non si produrrebbe usando il libro personale. Questo lavoro di analisi accende i cervelli e la curiosità di sapere se le supposizioni fatte corrispondono alla realtà oppure no!
Ecco alcune delle immagini che uso (scaricate dal WEB) per il laboratorio di archeo-didattica sui Villanoviani seguite da alcuni miei spunti di riflessione.
Le prime due immagini ci permettono di riflettere sul luogo in cui sorgeva la civiltà,
in questo caso un’altura da cui si poteva scorgere buona parte della valle del fiume Marecchia e anche il mare.
La riflessione sul luogo porta inevitabilmente a fare molti collegamenti con il territorio e le materie prime a disposizione della popolazione e di conseguenza sull’artigianato (prodotto con le materie prime del luogo) e ancora sui commerci. Questo modo di ragionare si collega molto bene con l’insegnamento della Geografia perché conoscere un territorio ci aiuta anche a capire gli usi e i costumi della popolazione che lo abita.
Queste figure rappresentano oggetti d’ambra, la resina fossile che si trova abbondantemente nei corredi funebri delle donne villanoviane; una riflessione, su cos’è l’ambra (gli amanti dei fossili sono sempre molto ben informati!) e da dove si estrae, ci porterà a fare considerazioni interessanti sui commerci e sulle mode.
Queste immagini rappresentano alcune fra le urne cinerarie ritrovate nelle necropoli villanoviane; la riflessione sui diversi modi di concepire la morte nelle civiltà è davvero interessante e riflette la psicologia e la cultura dei diversi popoli; per approfondire consiglio P. Ariès “L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi”.
Queste immagini ci portano a scoprire una delle tecniche artigiane usate dai villanoviani: la tessitura con telaio verticale. Proviamo a scoprire di cosa si tratta osservando i disegni sul “tintinnabulo” (uno dei pesi usati per tenere i fili tirati) e, a proposito di storie, chiedendo ai bambini di raccontare cosa è raffigurato su questo oggetto, vengono fuori storie davvero interessanti e buffe!
Dopo aver visionato altre “immagini parlanti”, e aver raccolto tutte le supposizioni, proviamo a vedere quali sono vere, e quali invece non corrispondono alla realtà dei fatti. Poi proviamo a ricostruire la vera storia del popolo di cui stiamo parlando.
Concludo l’incontro (o gli incontri) sui villanoviani, con un laboratorio pratico di tessitura, non a telaio verticale ma orizzontale, dedicando del tempo a spiegare e a sperimentare diversi strumenti per tessere.
Per avere altri spunti sui laboratori di archeo-didattica o sulla tessitura vi consiglio di visionare il mio blog www.maniingioco.blogspot.com o il mio profilo Facebook “Mani in Gioco”. Buon lavoro a tutti!
Proed005
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Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
Secondo un recente studio del Representation Project (organizzazione mondiale che garantisce agli esseri umani di raggiungere il loro potenziale, senza ostacoli legati al genere), le donne che emergono dal fiume di nomi di coloro che hanno fatto la storia rappresentano lo 0,5%.
Ma mentre gli uomini combattevano, davano vita alle ideologie, compivano imprese, dove erano le donne?
“Cherchez la femme”, scriveva con sarcasmo Alexandre Dumas padre, sostenendo che ovunque fosse un problema, là si trovasse una donna che ne era la causa.
Questa frase, assume in realtà nello spettacolo teatrale Cherchez la femme un’ accezione positiva: perché le donne, nella storia, hanno avuto un ruolo assai rilevante.
All’aprirsi del sipario troviamo così in scena 5 donne, Olympe de Gouges, Charlotte Salomon, Christine De Pizan, Irma Bandiera e Sophie Schöll: grandi personalità vissute in epoche diverse, accomunate dallo stesso triste destino, ovvero essere state ingiustamente tagliate fuori dai libri di storia.
Quanti sanno che Olympe de Gouges scrisse, in piena Rivoluzione Francese, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina?
Quanti conoscono la struggente opera “Teatro? O vita?” di Charlotte Salomon, con la quale lei tentò di sfuggire agli orrori del nazismo?
O ancora, il movimento della Rosa Bianca, di Sophie Schöll , che tentava di aprire gli occhi al popolo tedesco assoggettato al nazionalsocialismo?
E che dire di Christine De Pizan, la prima donna che nel 1400 divenne scrittrice per professione?
E di Irma Bandiera, la partigiana che dette la vita affinché le generazioni future potessero vivere libere come lei stessa avrebbe voluto?
Riunite, sotto forma di rose, in uno speciale giardino, le 5 donne parlano di sé e non solo, ora sotto forma di monologo, ora sotto forma di coro a più voci che si trasforma in vere e proprie melodie. Lo spettacolo si arricchisce infatti anche di canzoni cantate dal vivo dalle performer Lisa Santinelli e Mariarita Arancio.
Perché la musica, amica della memoria, è un valido aiuto per ricordare, tramandare, insegnare.
Scritto da Silvia Nanni e diretto da Claudio Benvenuti, lo spettacolo Cherchez la femme è un’iniziativa dell’ Associazione Culturale e Solidale Crescere Insieme. Costituita nel 1994, l’Associazione ha l’obiettivo di promuovere e sostenere attività culturali e solidali in direzione nonviolenta (come l’ appoggio alla causa dell’indipendenza del Saharawi, o i laboratori teatrali per i ragazzi e le ragazze delle scuole superiori, condotti da Claudio Benvenuti, da cui provengono proprio le protagoniste dello spettacolo) e rientra nell’ambito del P.E.Z. – progetti educativi zonali – della Regione Toscana, realizzati dal Cred Valdera.
La giovane età delle attrici in scena amplifica la forza del suo messaggio: promuovere una cultura della parità di genere e superare gli stereotipi.
Argomenti, questi, di cui è necessario parlare sempre più, non solo in occasione di giornate come la Festa della Donna.
Lo spettacolo Cherchez la femme andrà in scena sabato 12 marzo, alle ore 21.15, presso il Teatro della Compagnia di Castelfranco di Sotto (Pisa). L’ingresso è gratuito, con prenotazione obbligatoria allo 0571.487235 (9.00-13.00), o al
339.5271841.
Mentre giovedì 17 marzo, ore 21.15, andrà in scena al Teatro Cinema Vittoria di Cascine di Buti (Pisa), con ingresso gratuito (prenotazione al numero 329.1063401).
CHERCHEZ LA FEMME
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E se, dopo aver affrontato l’argomento “Impero Romano” in classe, ti proponessimo una gita scolastica con destinazione Pompei?
La Storia, si sa, non è una materia facile da insegnare: nonostante sia tra le più importanti – per sapere dove stiamo andando, è necessario conoscere da dove veniamo, anche per non ripetere errori già fatti in passato – è un attimo incappare in un noioso sciorinare di nomi e date che difficilmente resteranno nella testa e nel cuore degli alunni.
Dunque, niente di meglio che toccare con mano le testimonianze di precisi momenti storici, ascoltare i racconti delle gesta di eroi del passato più o meno antichi laddove questi hanno vissuto e agito, respirare l’odore di luoghi totalmente intrisi di storia.
Per questo è davvero essenziale accompagnare gli alunni nei musei, che siano questi presenti all’interno di edifici – qui, per esempio, abbiamo parlato del Museo della Scrittura di San Miniato – oppure a cielo aperto, come nel caso di Pompei.
Il primo pensiero che salta alla mente appena si arriva nella cittadina ai piedi del Vesuvio è proprio questo: è enorme!
Strade e viottoli lastricati in basalto lavico che si intersecano, resti di edifici a perdita d’occhio, testimonianza viva della vita quotidiana di una città romana del 79 d.C.
Pompei è uno dei siti archeologici più importanti al mondo, in cui lava e cenere hanno fatto da copertura, permettendo così alla città di mantenersi intatta nei secoli, al riparo dalle intemperie, così da essere visitabile ancora oggi.
Un importante centro urbano dell’Impero Romano abitato da ventimila abitanti, nonché ambito luogo di villeggiatura e, grazie al particolare clima, ricco di fertili terreni coltivati nei dintorni.
Prospera e fiorente, Pompei pullulava di botteghe di artigiani e commercianti; attorno al foro principale, che costituiva il cuore della città, si potevano trovare gli uffici, il tribunale, i teatri, i templi, il mercato, le terme, le palestre, le ville.
Soprattutto queste ultime ci regalano ancora oggi mosaici e affreschi meravigliosi, e al loro interno sono stati ritrovati ori e utensili – esposti al Museo Archeologico di Napoli – fondamentali per ricostruire la vita quotidiana dell’epoca.
In realtà, tutto ebbe inizio nel primo pomeriggio del 24 agosto, quando dal Vesuvio si sollevò una colonna immensa di vapori, fumo, lava e cenere alta ben 15 km!
A ciò seguì una pioggia di detriti che creò vasti incendi nelle zone circostanti; Pompei fu poi colpita dalla lava alle prime luci dell’alba del 25 agosto. Così, nell’arco di trenta ore, fu letteralmente seppellita da metri di cenere e lava.
Il vulcano, ricoperto da erba e alberi, era inattivo da secoli: per questo colse tutti gli abitanti di sorpresa, trovandoli impreparati a fronteggiare l’emergenza.
Molte persone morirono a causa delle esalazioni di gas tossici sprigionati dal vulcano; la cenere ardente, poi, ne ricoprì i corpi, permettendo agli archeologici di restituire, attraverso la creazione di calchi in gesso, le pose delle vittime fissate nei loro ultimi istanti di vita: vere e proprie statue davanti alle quali è impossibile non provare commozione.
Ma l’antica Pompei non è ancora stata portata del tutto alla luce, e gli scavi continuano ancora oggi.
Per conoscere la storia della vita quotidiana di una cittadina del’Impero Romano, capirne gli usi e i costumi, ammirare i meravigliosi affreschi delle sue ville, e guardare il Vesuvio stagliarsi all’orizzonte, comprendendone la forza: per una gita scolastica in cui storia e natura si mescolano, all’insegna dell’emozione!
Qui trovi maggiori informazioni per organizzare una visita didattica a Pompei.
Indossiamo la cultura è il progetto sviluppato da Google Arts&Culture per digitalizzare 3000 anni di storia della moda
Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
Quando si parla di laboratorio vengono in mente provette e alambicchi, strumenti utili allo studio delle scienze. Ma il laboratorio
Il prossimo 2 giugno festeggeremo, per la 75° volta, la nascita della Repubblica Italiana. Il 2 e 3 giugno del 1946, infatti, gli italiani furono chiamati ad esprimere il proprio voto, scegliendo quale forma di Stato dare al Paese appena uscito dalla Seconda Guerra Mondiale.
In quell’occasione, per la prima volta in Italia anche le donne parteciparono alle urne: così, 12 milioni di italiani votarono per la fine della monarchia e l’inizio della Repubblica Italiana, eleggendo anche l’assemblea che avrebbe stilato la nuova Costituzione, in vigore dal 1° gennaio 1948.
Il 2 giugno 1947 – un anno dopo lo storico referendum – fu dunque istituita la Festa della Repubblica. La prima parata militare a Roma, in via dei Fori Imperiali, con il cerimoniale al Vittoriano inaugurato dal Presidente Luigi Einaudi, si tenne nel 1948.
Solo nel 1949, però, la giornata venne dichiarata ufficialmente festa nazionale. Dal 1977, la festa venne spostata alla prima domenica del mese, fino a quando, nel 2001, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi decise di fissarla di nuovo al 2 giugno.
Quest’anno, contrariamente al passato, non ci sarà la parata delle Forze Armate lungo i Fori Imperiali, né saranno aperti, come di consueto accade in via eccezionale in occasione di questa celebrazione, i giardino di Palazzo Quirinale.
Ma coloro che si troveranno a Roma, potranno comunque alzare gli occhi al cielo e godersi lo spettacolo delle Frecce Tricolori, che passeranno sulla capitale durante la cerimonia di deposizione di una corona di alloro presso l’Altare della Patria da parte del Presidente della Repubblica.
Arrivare alla costituzione della Repubblica Italiana, ovviamente, non è stato un processo semplice, né immediato. Così come non è semplice spiegare, o meglio raccontare in modo avvincente a scuola, i tumulti, gli animi, gli ideali che hanno smosso gli italiani nella costruzione della storia del loro Paese, dal Risorgimento alla Repubblica: potremmo dire che, per riuscire nell’intento, ci vorrebbe un Alessandro Barbero per ogni scuola!
Ma per non scomodare l’illustre storico, noi ci proviamo con il libro “La scoperta dell’Italia | Lettere dal passato remoto del mio amico Virgilio”, che con humour e brillantezza racconta il momento saliente della storia del nostro Risorgimento (il 1861, quando si combatte per l’Unità d’Italia), visti attraverso le lettere di un adolescente che lo ha vissuto, ritrovate in una soffitta da un suo coetaneo nel 2011.
Nel libro – un gioco continuo di chiama e rispondi – le due storie si intrecciano, narrando il momento storico in maniera fresca, moderna, attuale: come se la storia raccontata fosse la stessa, ma ambientata in due epoche diverse che si confrontano.
La grafica accattivante, poi, rende tutto ancora più coinvolgente!
Il libro lo trovate qui: buona lettura e… buona Festa della Repubblica!
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Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
Quando si parla di laboratorio vengono in mente provette e alambicchi, strumenti utili allo studio delle scienze. Ma il laboratorio
Nel mio lavoro di insegnante di Storia mi è capitato (non spesso, ma neanche così raramente) di imbattermi in affermazioni e proposizioni di temi, da parte dei manuali, assai poco convincenti. Falsi miti, interpretazioni e rappresentazioni che – pur coincidendo spesso con quelle assunte dal sapere e dalla coscienza collettivi veicolati dalla scuola stessa e dai media come il cinema – mostrano, alla verifica dei fatti, grossi limiti di veridicità.
Smontare questi falsi miti o luoghi comuni mi è sempre parso un obiettivo non secondario della mia professione, anche come stimolo all’esercizio di quella intelligenza critica e a quell’apertura verso il dubbio cui spesso ci hanno richiamato i programmi e le indicazioni ministeriali.
Si prenda, per citare uno degli esempi più significativi, la tanto celebrata missione di civiltà portata avanti dai “buoni” nordisti contro gli schiavisti del Sud durante la Guerra di Secessione americana (1861-1865), vero e proprio totem di una narrazione che ha posto in risalto anche nella cultura di massa figure come quella del “liberatore” Lincoln, assunto a vera e propria icona dello spirito liberale americano.
Un mito diffuso anche dai manuali di scuola e nella cultura di massa, nelle canzoni (chi non ha mai ascoltato o cantato la famosa canzone su John Brown?) come nel cinema, ma un mito appunto.
La realtà, a dire il vero, appare ben altra: nel suo straordinario (per passione, coraggio, lucidità) studio pubblicato per l’Enciclopedia storica de ”La Repubblica” (che a suo tempo coinvolse le maggiori firme della storiografia moderna, italiana e non solo), Raimondo Luraghi – uno dei massimi studiosi del conflitto americano – ci apre gli occhi a una realtà assai diversa, nelle quali a essere prioritarie non furono certo certo le ragioni umanitarie ma quelle politiche ed economiche, e nella quale non si trova granché traccia dello spirito umanitario tante volte associato ai ‘liberatori’, per i quali il permanere della schiavitù negli Stati del Sud non costituiva certo l’argomento decisivo della guerra. Tanto che lo stesso Lincoln arrivò a sostenere che:
Il mio obiettivo dominante in questa lotta è salvare l’Unione, e non è né salvare né distruggerela schiavitù. Se mi fosse dato di salvare l’Unione senza liberare nessuno schiavo, lo farei; e se potessi salvarla mediante la liberazione di tutti gli schiavi lo farei; e se per salvarla dovessi liberarne alcuni e lasciar stare gli altri, farei anche questo[1].
Ben altre furono le motivazioni e gli scopi di quella guerra, principalmente economici e politici: c’era da confermare l’egemonia politica ed economica del Nord industriale e capitalista contro il ‘barbaro’ mondo del Sud, per giunta contrario al protezionismo economico ad esso imposto dal governo federale al fine di garantire lo sviluppo di quelle fabbriche dove, sia detto per inciso, si sfruttavano i lavoratori senza alcun ritegno e nelle quali, evidentemente, lo spirito umanitario e liberale del civilissimo Nord conosceva una solenne amnesia.
Anche davanti alle asserzioni spacciate come verità assolute e inderogabili, ed è puramente voluto ogni riferimento al clima attuale nel quale – a proposito del tema Covid – si è voluta contrapporre una cosiddetta scienza (in verità molto più simile ad un insieme di dogmi monolitici che a quello spirito di ricerca richiamato da Il saggiatore di Galileo) a chi, a torto o a ragione, sosteneva posizioni diverse da quelle ufficiali, tutte accomunate in un fronte antiscientifico, retrogrado e anti moderno: sarà, anche questo, un mito o una verità?
[1] R. Luraghi, La secessione del Sud e la Guerra civile americana, p. 763, in La Storia, ed. L’Espresso, Roma, 2004
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Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
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Grazie anche alla presenza di una rete specialistica come Rai Storia, la divulgazione dei programmi di carattere storico sembra avere avuto negli ultimi anni un riscontro sempre maggiore, portando alla ribalta mediatica alcuni presentatori, primo fra tutti lo storico del Medioevo Alessandro Barbero, assurto a vera e propria icona pop.
Sul web il suo nome è tra i più gettonati, e per dare un’idea del livello di popolarità raggiunto dal medievista, basterà citare la pagina Facebook a lui dedicata: Alessandro Barbero noi ti siamo vassalli. Titolo simpatico, e assai eloquente! Per chi non conoscesse ancora l’illustre storico, ecco una proposta di libri da lui scritti.
Occorre in primo luogo rendere merito a tali programmi di carattere storico, capaci – anche e soprattutto attraverso l’ausilio delle immagini e dei filmati – di restituire agli eventi e ai periodi storici quella concretezza e quella realtà che tanto spesso sfuggono a chi si avvicina alla Storia, finendo poi per allontanarsi e non appassionarsi; questo, proprio a causa di quel limite di astrazione che caratterizza i testi e le spiegazioni degli stessi insegnanti nelle aule di scuola: parole, solo parole, dietro le quali non è sempre facile intravedere la realtà di uomini e tempi lontani ed immedesimarsi in essi.
Da quello più enfatico di Barbero (enfasi che non dispiace, visto che nasconde a fatica la passione per la Storia!), a quello più cattedratico del nostro storico forse più famoso, Franco Cardini (ma anche il suo è un cattedratico positivo, sempre arricchito da un approccio umano e coinvolgente, mai pedante o professorale), a quello affabile e colloquiale – al tempo stesso avvincente – di Cristoforo Gorno, che con le sue Cronache dal Rinascimento riesce a far toccare con mano il fascino e la meraviglia di quel periodo storico così ricco e misterioso.
Una, forse, risiede in quel certo livello di coinvolgimento che appare intrinseco alla Storia, specie quella contemporanea, nella passione (anche politica) che la riflessione sugli eventi più recenti porta spesso con sé (si pensi al tema del Fascismo o delle guerre mondiali), suscitando dibattiti e contrapposizioni talvolta anche molto accesi e non solo tra specialisti o appassionati: quante volte tra amici si è discusso non solo di sport ma anche di Storia, e spesso dividendoci anche di più rispetto al calcio? Quante volte, per citare un esempio non facile, si è ascoltata la lamentela di persone del Sud contro il Nord conquistatore, che avrebbe asservito ai propri interessi politici ed economici il Meridione d’Italia, fino a determinarne l’attuale, gravosa condizione? E quante altre si è dovuto ribattere al famoso ”Si stava meglio quando si stava peggio” di nostalgica memoria?
La Storia scalda, provoca discussioni e quindi interesse e forse questo accade perché – nonostante l’odierno appiattimento su un presente atemporale votato solo alle leggi della produzione e del consumo – affiora più o meno consapevolmente la percezione che il passato sia un ponte col presente, un passato che va dunque indagato e chiarito per avere ragione dell’oggi: a questa esigenza i nostri programmi sembrano rispondere in maniera efficace, e con ampio merito risultano seguiti, tanto da far scaturire reazioni veementi di fronte all’ipotesi di chiusura del canale tematico per eccellenza, Rai Storia appunto, ventilata mesi or sono.
I dubbi e le ombre, quelli non mancano mai: un primo interrogativo riguarda quell’eccesso di spettacolarizzazione che talvolta si avverte e che rischia di far perdere la dimensione umana alla rappresentazione degli eventi e delle persone, a volte un po’ troppo somiglianti ad un grande film hollywoodiano, ad una narrazione che trascura il dolore e la fatica degli uomini di cui spesso le vicende storiche sono intrise e che talvolta la sua riproduzione mediatica rischia di opacizzare.
Un’altra domanda, forse più provocatoria, riguarda la onniscienza che alcuni divulgatori sembrano sottintendere, un dubbio che viene allorquando notiamo lo stesso storico presentare un giorno una puntata su Giovanna d’Arco e un altro una ricostruzione della battaglia di Stalingrado: si può essere così specialisti di tutto? Forse no, ma resta solo una domanda all’interno di un quadro nel quale le luci, per una volta, hanno la meglio sulle ombre.
Indossiamo la cultura è il progetto sviluppato da Google Arts&Culture per digitalizzare 3000 anni di storia della moda
Un percorso di storia sperimentato presso la scuola secondaria di primo grado per dire no a tutte le guerre e
Quando si parla di laboratorio vengono in mente provette e alambicchi, strumenti utili allo studio delle scienze. Ma il laboratorio
Un'attività divertente da proporre in classe per imparare a prendersi cura degli animali domestici