Lo spirito di imprenditorialità alle medie

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Lo spirito di imprenditorialità e la valutazione degli alunni agli esami di terza media.

A giugno si sono svolti gli esami di terza media (da anni definita un po’ pomposamente scuola secondaria di primo grado) e per fortuna in presenza, anche se soltanto orali come tutti ben sanno. Sarà stato forse per la semi-assenza dell’anno precedente, in cui l’esame si è limitato ad una chiacchierata online, che nel compilare la certificazione delle competenze (a proposito di termini pomposi) mi è risaltata agli occhi una dicitura che avevo dimenticato o che forse avevo voluto dimenticare: spirito di imprenditorialità.

Proprio così, né più né meno, anche se fa effetto a dirlo: un alunno che esce dalla scuola media viene valutato per la sua capacità imprenditoriale, non si sa bene in quale contesto dimostrata (chissà, forse nel gestire lo scambio di figurine o nell’organizzare una festa di successo).

Dopo aver steso un velo pietoso sulle modalità di attribuzione dei voti (assolutamente casuali e privi di senso, perché senso non ne potevano avere), viene da chiedersi da chi e da cosa derivi una simile aberrazione che per qualsiasi persona sana oltrepassa il normale senso del ridicolo.

Per quanto riguarda il chi andrebbe ricercato il nome del ministro a cui attribuire tale gloriosa innovazione, ma è compito da cui mi sottraggo volentieri in quanto il punto sta piuttosto nel cosa, e qui è più facile individuare il soggetto: lo si ritrova per l’appunto in quella intrusione violenta del pensiero unico economicista che attribuisce una valenza preponderante se non assoluta a quell’homo economicus posto da tempo al centro dei modelli collettivi di riferimento e anche dello sviluppo dei processi di conoscenza: perché vivere, perché imparare, studiare, se non per una finalità economica, o meglio imprenditoriale?

A tutto ciò fa da sfondo e da corollario una visione unilateralmente materialistica e utilitaristica della vita, deprivata di ogni senso e di ogni finalità che non siano appunto quelle suggerite o meglio imposte da questo modello unico al cui rispetto e alla cui osservanza si vuole coartare la mente delle persone a partire dall’età più giovane.

Se seguissimo queste ed altre indicazioni ministeriali (e non solo, perché la pressione finalizzata ad orientare la scuola è sempre più vasta), più o meno coercitive, la scuola risulterebbe davvero deprivata delle sue funzioni più proprie che sono quelle di trasmettere saperi e di garantire la possibilità di sviluppo autonomo ed individuale (individuato) di ogni studente, così che ognuno possa, nel rispetto degli altri e della società in cui vive, costruire la propria vita e, perché no, la propria felicità (questa parola non si trova nella certificazione delle competenze); se seguissimo, appunto, perché  – come diceva Cechov, ”Io non ho nessuna fiducia nell’intellighenzia, io ho fiducia nei singoli individui’‘ – alla fine la scuola è (almeno per il momento) da persone, da luoghi e spazi in cui circolano emozioni e materia viva, bollente, che nessuna indicazione ministeriale potrà cancellare, e sta agli insegnanti in primo luogo orientare i propri studenti verso mete e spazi ben più alti di quelli determinati dall’alto.

E sarebbe bello che qualche volta quell’alto ascoltasse e vedesse davvero cosa accade nelle nostre aule, anche in quelle sedi d’esame in cui gli insegnanti assegnano stancamente, sopraffatti dal caldo, voti casuali ai futuri giovani imprenditori di tredici anni; magari, come si diceva un tempo, una risata li seppellirebbe, con grande giovamento collettivo.

Nato a Firenze il 25 febbraio del 1970, si è laureato in Lettere con indirizzo storico all'università di Firenze nel 1998. Dal 2001 insegna Lettere alla Scuola Secondaria di primo grado. Nel dicembre del 2014 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'amore al tempo della rete" (Carmignani Ed.). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all'interno di raccolte antologiche; un suo articolo è apparso sulla "Antologia" del Lab. Vieusseux nel 2016.

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