Il diritto alla disconnessione

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Cellulare, email, registro elettronico, smartwatch… il panopticon moderno che ci tiene “sempre collegati”

"Scusi prof, cosa c’è domani nel compito di geografia?". Era una domenica, di sera, nel pieno del relax che precedeva il rientro alle fatiche lavorative, e la mail dell’alunno mi spinse a una decisione irrevocabile: disconnettermi. 

Eppure, ricordo ancora la gioia con la quale solo pochi mesi prima ero riuscito a collegare la mia mail personale con quella dell’istituto anche sul cellulare: finalmente anch’io sarei stato in costante aggiornamento con le comunicazioni della scuola!

Cos’erano quei tempi bui, ottocenteschi, in cui per vedere la corrispondenza scolastica dovevo mettermi a sedere al mio computer? Ogni aggiornamento mi avrebbe seguito come un’ombra, sempre, comunque, in ogni luogo, e sarei stato definitivamente moderno e nuovo pure io!

Bastò poco, e quello squillo divenne un incubo: a tavola, al cinema, in vasca da bagno, il mio povero smartphone trillava ovunque: proposte di aggiornamento, comunicazioni urgenti e piangenti delle famiglie, domande sulle interrogazioni, richieste ancor più petulanti di colleghe (uso il femminile non a caso, ma questo sarebbe un altro argomento: perché ci sono così pochi uomini nella scuola?) su scadenze improrogabili anche se di lì a un mese, discussioni infinite nei consigli di classe che ormai si svolgono più via chat che dal vivo, e il mare della nevrosi che dilaga, impetuoso, incessante, fino a farmi mordere il cellulare (una volta è successo davvero).

E io lo ringrazio, quel caro alunno, lo benedico, perché con quella semplice domanda fu in grado di farmi capire quanto stupido fosse stato e quanto poco o nulla fosse necessario essere costantemente collegato, come una macchina, perché è pur sempre questo l’obiettivo che si intravede in tante dinamiche e input che percorrono il mondo della scuola, la riduzione dell’uomo a macchina, a digitatore non-pensante ma sempre collegato: e benedico quell’atto, quella cancellazione, minima protesta contro un mondo che vuole togliere l’aria, lo spazio, la noia (sì, anche quella, intesa come vuoto, come non-fare), e celebro ogni rivolta che nelle nostre aule si compie oggi da parte di chi vuole una scuola fatta di dialogo e di pensieri e non di spazzatura compulsiva.

E, più di questo, il tema di fondo, quel diritto alla disconnessione di cui tutti parlano ma che nelle scuole si fa fatica a mettere in pratica perché a dire ’’no’’ si passa male, per oppositivi, gente a cui non frega nulla, che mette i bastoni fra le ruote. Chi si vuole disconnettere spesso lo fa anche perché così può dedicare più tempo per quella che dovrebbe essere la vera azione dell’insegnante: studiare, approfondire, progettare, riflettere. Tutte cose che si fanno stando connessi con la propria testa, la propria immaginazione, le proprie curiosità intellettuali e non con uno dispositivo elettronico.

Un ultimo, struggente pensiero va al vecchio registro delle circolari, l’ultima delle quali è stata probabilmente firmata dal Manzoni: strumento vetusto, sepolcrale, che fa quasi pena vedere così (quando lo si vede ancora), abbandonato in un angolo delle italiche aule docenti, quello che ti costringeva a fermarti un attimo, a pensare, a firmare (sì, si usava la mano, prima) e che, soprattutto, non ti chiamava mentre eri nella vasca da bagno per sapere cosa c’era nella verifica di geografia!

Sul tema ne avevamo già parlato qui!

Nato a Firenze il 25 febbraio del 1970, si è laureato in Lettere con indirizzo storico all'università di Firenze nel 1998. Dal 2001 insegna Lettere alla Scuola Secondaria di primo grado. Nel dicembre del 2014 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'amore al tempo della rete" (Carmignani Ed.). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all'interno di raccolte antologiche; un suo articolo è apparso sulla "Antologia" del Lab. Vieusseux nel 2016.

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