Ripercorriamo insieme la storia delle riforme scolastiche italiane
Parlare di riforme della scuola risulta, di questi tempi, quanto mai problematico: la stessa definizione è ormai inscindibilmente legata ai tentativi fatti da tutti gli ultimi ministri di turno di intestarti una ‘riforma’ purché fosse, ovvero tale da rendere associato il proprio nome alla scuola e alla società italiana in modo più o meno imperituro.
Ricerca di visibilità, dunque, che ha portato talvolta a cambiare tanto per cambiare ma, anche e peggio, mere finalità di bilancio che hanno spesso – per non dire sempre – caratterizzato le riforme degli ultimi anni.
Si pensi, solo per fare due esempi, all’eliminazione targata Moratti nel 2003 delle ore di compresenza alla scuola media, spazio assai utile per mettere in pratica le attività di recupero e di potenziamento, o all’eliminazione dell’ora di Educazione civica, prima cassata dall’orario di Lettere e poi reintrodotta due anni or sono in una formula ‘spezzettata’, ovvero distribuita per ogni docente (si fa fatica a crederlo, ma anche gli insegnanti di Matematica o di Educazione fisica, pardon Motoria – anche cambiare i nomi delle materie ‘fa riforma’ – devono valutare le competenze ‘civiche’ degli alunni).
Dicesi riforme, dunque, ma leggesi tagli, come è reso evidente dal fatto che nessuno dei suddetti cambiamenti è risultato essere l’approdo di uno studio scientifico tale da supportarne il fondamento; sarebbe ben difficile, del resto, dimostrare la ratio della cancellazione delle compresenze o di un serio e vero percorso di Educazione civica.
Un altro aspetto risulta davvero mortificante per l’intero mondo della scuola: Le riforme o cosiddette tali sono state tutte promosse – o meglio imposte – dall’alto, senza alcun reale coinvolgimento di chi la scuola la vive davvero, insegnanti e studenti in primo luogo.
Si pensi, per citare solo uno degli esempi più recenti, all’introduzione dell’alternanza scuola/lavoro negli istituti superiori, realizzata e promossa oltrepassando quell’ascolto di docenti e studenti che forse mai come in questo caso sarebbe stato necessario.
Ci si è chiesti, si è chiesto quanto pesi nel percorso di uno studente la rinuncia a decine di ore di studio in favore di un’attività lavorativa obbligatoria e non retribuita, quanto gravoso possa essere un primo incontro col mondo del lavoro sperimentato in forme spesso caratterizzato da sfruttamento e da condizioni di scarsa e precaria sicurezza, come dimostrato dai recenti, purtroppo non isolati, eventi drammatici?
Vista così, l’espressione ‘riforma scolastica’ non può che suscitare un moto di rifiuto, se non di vera e propria repulsione; e tuttavia sarebbe ingiusto, visto che in un passato più o meno lontano il quadro si è tinto di note molto meno fosche e, in alcuni casi, decisamente apprezzabili.
Come l’introduzione della scuola media unica del 1962 che eliminò il percorso professionale al quale erano, secondo una visione classista, avviati gli appartenenti ai ceti più bassi.
E che dire del un decennio successivo, quando – nel pieno della contestazione e delle spinte verso l’inclusione e la partecipazione – fu attuata l’integrazione degli alunni disabili nelle scuole italiane (primo caso al mondo) ed istituita, con i ben noti decreti delegati del 1974, la rappresentanza di genitori e studenti negli organi collegiali?
Se, all’opposto, il quadro di oggi appare disarmante, è pur sempre possibile formulare un auspicio per il futuro: che le prossime riforme, se vi saranno, non siano solo delle etichette, ma siano tali da intercettare veramente le spinte e le esigenze che vengono dal mondo della scuola, dalla valorizzazione della figura dei docenti alla realizzazione di una scuola veramente inclusiva, nei fatti e non nelle parole: per fare ciò occorrono, però, soldi, almeno tutti quelli che alla scuola sono stati sottratti col nome di riforme; occorre un senso, una direzione, quella che da molto tempo è assente ingiustificata.