Francesco Rocchi

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Docente di italiano e storia al liceo E. Montale di Pontedera, ha fatto parte del gruppo di docenti che cura il blog "Condorcet. Ripensare la scuola". Scrive di scuola ed è animatore del laboratorio di metodo di studio "Tieni banco!", a Pontedera

Il Morgagni, i voti e la guerra sulla valutazione

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Il liceo Morgagni, intervenendo sui voti, ha generato una guerra culturale, ma la valutazione scolastica non cambierà agendo su un solo elemento. Tante cose devono cambiare, come i crediti scolastici (ma forse questi dovrebbero solo sparire)

La vicenda del Morgagni, il liceo che ha provato a riconsiderare il significato e l’opportunità dei voti a scuola, ha generato una sorta di guerra di idee sulla valutazione scolastica. 

Certo, la “scuola delle relazioni e della responsabilità” era una sperimentazione e, in quanto tale, aveva proprio lo scopo di aprire un dibattito, ma sorprende e dispiace che la discussione pubblica abbia dovuto vertere non già sul suo andamento, bensì sulla sua fine.

Si poteva discutere degli effetti della sperimentazione sugli studenti, o di come migliorarla, o di come adattarla ad altri contesti, mentre invece ci si è sostanzialmente limitati ad approvare o condannare la decisione della scuola, peraltro avvenuta  con un colpo di spugna così improvviso e definitivo da lasciare interdetti.

Ma qual è il problema…

Il problema più grosso sta nella sbagliata contrapposizione tra valutazione formativa e sommativa. Io stesso non trovo il voto numerico particolarmente utile, ma la rappresentazione fatta dagli abolizionisti dell’uso del voto da parte dei docenti italiani è spesso riduttiva.

Come anche nel recente (e per molti altri versi condivisibile) libro di C. Corsini, si ha l’idea di docenti cupi e grifagni che altro non aspettano che di tormentare i ragazzi lapidandoli coi voti, laddove gli abolizionisti si propongono come coloro che con i ragazzi vogliono curare un rapporto più umano e profondo (cosa cui sembra alludere anche la definizione stessa di scuola “delle relazioni”).

E’ una dicotomia semplicistica che, non assente in alcuni passaggi dei documenti del Morgagni, può aver esacerbato gli animi.


L’abuso del voto esiste (ed è innegabile)

Ma esistono anche docenti attenti che usano i voti con buon senso e senza trascurare la valutazione formativa, la cui importanza per fortuna è ormai senso comune.

Esiste anche l’ossessione degli studenti per il voto e per le medie, che l’attuale docimologia scolastica di certo fomenta, soprattutto attraverso il nefasto strumento dei crediti scolastici.

Questa improvvida invenzione del legislatore scolastico costringe i docenti a fare medie senza senso dei voti nelle varie materie e a far pesare sull’Esame di Stato voti vecchi di anni, uccidendo ogni reale motivazione allo studio.

Un tale intrico di abitudini, necessità burocratiche ed esigenze pedagogiche non lo si risolve semplicemente abolendo il voto, ma con una comprensione profonda del funzionamento della scuola. Cosa genera ansia, come la si riduce, come si favorisce l’apprendimento?

Il voto e la sua gestione

La mia ipotesi è che il problema col voto non sia nella sua natura “numerica”, ma nella sua gestione. I voti in corso d’anno (in itinere) costituiscono la spia dell’andamento scolastico. In altre parole essi sono un manometro che va tenuto quanto più possibile al di sopra della fatidica soglia del 6.

Quando uno studente prende meno di 6 chiede come recuperare, e con questo generalmente non intende come può migliorare la propria preparazione, ma come può riportare la media in un’area sicura.

Quando prende 5, uno studente non si dà pace finché non prende un 7 che riporti la media a 6. Che prendere 7 in un’altra valutazione non copra le sue lacune non è importante: primum vivere, cioè non prendere debiti.

Se si tolgono i voti ma si lasciano a valle gli scrutini così come sono, ovvero un mercato delle vacche di “voti di consiglio”, “aiutini” e considerazioni estemporanee, l’ansia rischia di rimanere, perché agli studenti rimarrà l’idea, del tutto giustificata, che le loro sorti siano appese a considerazioni superficiali o poco sistematiche e continueranno a vedere nella valutazione un momento di tensione.

Anzi, il rischio è che l’ansia aumenti perché non è detto che dalla valutazione formativa (che non ha quello scopo) possano ricavare previsioni -e rassicurazioni- sugli esiti finali.

Altrettanto poco utile è togliere il voto e lasciare che le forme e le occasioni della valutazione rimangano identiche. Molta ansia nasce dal fatto che le prove di valutazione della scuola italiana sono episodiche e superficiali.

Lo strumento principe della docimologia italiana, l’interrogazione orale basata su domande estemporanee, è problematico non perché si conclude con un voto numerico, ma perché è radicalmente impropria l’idea che da due o tre chiacchierate guidate si possa ricavare un’idea accurata del lavoro di un intero quadrimestre: le interrogazioni sono sottoposte a mille variabili indipendenti, che vanno dall’umore del docente, a quello dello studente, all’ora in cui avviene l’interrogazione, alla chiarezza delle domande, alla prossemica delle persone coinvolte…

Il dialogo con gli studenti è essenziale

Ma ci sono mille altre forme per stimolarlo, e molto meno episodiche. Parlare con gli studenti senza il convitato di pietra del giudizio, sommativo o meno che sia, apre molte più possibilità di crescita intellettuale e personale -esattamente come in qualsiasi altro contesto sociale e culturale. 

Di contro, come avevo proposto qui, la progettazione di prove sommative più ampie e strutturate, con esami cui dedicare dei periodi ben specifici dell’anno scolastico, renderebbe possibile sostituire il pendolo didattico di “spiegazione-interrogazione” con un lavoro serrato in cui ogni studente si prepara al meglio per prove affidabili e concepite in modo tale che lo studio non si possa improvvisare, ma debba essere continuo ed incrementale, nonché supportato da una valutazione formativa continua. 

So che molti docenti vedono nell’interrogazione un intenso ed irrinunciabile momento di scambio con gli studenti. Quel che io sostengo, però, è che quei momenti non siano strutturalmente legati ai voti, bensì alla capacità che questi docenti hanno di dialogare con gli studenti.

Nello schema che propongo quei momenti sarebbero approfonditi e resi sistematici. 

Ovviamente la mia è solo una proposta e altre se ne possono fare. Spero però di aver contribuito a spiegare come gli interventi efficaci sulla scuola non passino da singole disposizioni, ma da interventi di sistema.

Proposta per un’analisi del testo senza figure retoriche

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Nell’analisi del testo le figure retoriche potrebbero non essere così importanti. L’obiettivo è capire e apprezzare la letteratura, non dissezionarla.

La cosiddetta analisi del testo, con dentro l'individuazione delle figure retoriche, è la principale e più curata competenza nella didattica di italiano in qualsiasi ciclo scolastico. 

Già a suo tempo Claudio Giunta aveva però espresso dello scetticismo sull'esagerata attenzione data alle figure retoriche e io qui, pensando anche alla prima prova dell'Esame di Stato, vorrei provare a riprenderne il discorso con una mia proposta didattica.

L’analisi certosina delle figure retoriche è davvero l’approccio giusto?

Il mio punto di partenza è che l’analisi certosina delle figure retoriche non porta davvero alla piena comprensione di un testo letterario. Nessuno ha mai capito meglio una poesia soltanto dopo averla passata ai raggi X dell’analisi strutturale e retorica, così come nessuno ha mai amato un film soltanto dopo aver appreso cosa è una dissolvenza incrociata o un piano americano. Queste cose sono importanti, ma per il tecnico, non per il lettore in senso generale.

Il focus è un altro…

Se, invece, concentrassimo l’attenzione degli studenti su ciò che conta, ovvero sul personale godimento di quell’intreccio di forma e contenuto che è la letteratura, avremo colto l’obiettivo di creare lettori indipendenti che sanno ricercare e apprezzare il testo letterario anche se le cognizioni retoriche rimangono poche ed essenziali. 

E per apprezzare la letteratura l’unica cosa utile è frequentarla assiduamente. Ogni libro letto regala maggior finezza al lettore, ogni confronto con passate letture ne affila lo sguardo. Pian piano ogni lettore scopre cosa gli piace e cosa no; impara a gestire le aspettative create dai testi, a notare se e quanto si allineano ai canoni del genere, a percepirne i toni, le variazioni e i sottintesi, tanto di lingua quanto di contenuto.

La competenza si costruisce così: interiorizzando le proprie letture.

Non esiste lettore esperto che non abbia letto tanto e l’analisi minuziosa, guidata, tecnicista del testo non è un sostituto valido dell’esperienza. Passare in rassegna tutte le particolarità metriche, stilistiche e retoriche di una poesia non permette di percepirla meglio, se nel proprio bagaglio di lettura di poesie ce n’è solo una mezza dozzina o giù di lì.

Si badi bene che in questo approccio la riflessione sul testo è centrale. Parlare di letteratura aiuta a capirla meglio, perché le nostre idee non possono essere chiare finché non le abbiamo ordinate ed esposte: è la cosiddetta “meta-cognizione”.

Bisogna quindi imparare a descrivere e spiegare le proprie reazioni a un testo.

Leggendo, a puro titolo di esempio, Languore di Verlaine, l’importante non è descriverne  l’armamentario tecnico, bensì avere una reazione emotiva di fronte all’immagine di un poeta che si identifica con l’Impero Romano morente, per poi saperla articolare in frasi e ragionamenti.

Questo significa che non ci si deve tanto soffermare su anafore o chiasmi, ma su quello che quegli strumenti tecnici, che possono anche rimanere invisibili, vogliono portarci a vedere. 

Se c’è una cosa che il lettore deve mettere di suo, piuttosto, è una qualche conoscenza pregressa di ciò che è stata Roma antica. Devo avere qualcosa in mente da evocare quando Verlaine parla di di  decadenza dell’Impero Romano.

Se non conosco la storia di Roma, quel languore per me rimane morta a prescindere da qualsiasi analisi retorica. Insieme con quello letterario, infatti, quel che serve davvero è un buon bagaglio culturale in senso generale: solide cognizioni di storia, geografia, scienze e tanto altro.

Se tale bagaglio culturale e letterario ce l’ho, il testo sotto i miei occhi non solo prende vita e significato, ma posso metterlo in relazione con mille altre suggestioni, con altri testi simili od opposti, in una ricerca che si amplia continuamente.

Ed è con una buona esperienza di lettura che posso cogliere tono e registro di una poesia:

È popolaresca o raffinata? Esplicita o allusiva? Se nel mio bagaglio culturale ci sono sia filastrocche popolari, sia poesie colte, le analogie di una nuova poesia con le une e con le altre emergeranno,  e noterò anche le sfumature. Potrò esprimere opinioni personali e dire se passaggio è roboante e magniloquente o intimo e delicato anche senza contare anafore e aposiopesi.  Ovviamente lo stesso vale per la prosa.

Invece di polverizzare la letteratura nel mortaio dell’analisi tecnica, può quindi essere utile fare letture comparative.

Si provi a leggere una poesia di Montale e una di D’annunzio nella stessa lezione, e si vedrà che le rispettive vene poetiche diventano subito più chiare. Se si prova a leggere qualche ottava scanzonata di Ariosto accanto a quelle solenni di Tasso, si capiranno subito meglio l’uno e l’altro. 

In tal senso è importante non solo accostare alla letteratura anche altre forme di espressione culturale (pittura, fumetto, cinema, ecc.) ma reimpostare lo studio cronologico della letteratura, sia pure senza abbandonarlo. 

Invece di proporre la tradizionale lettura biologica-evolutiva della letteratura

Può essere più utile proporre agli studenti ampie sintesi di quel che nel corso del tempo andranno a studiare e affrontare preliminarmente mirate antologie di testi rappresentativi delle epoche e dei movimenti da approfondire poi più avanti con maggior agio (con periodiche riprese del quadro di riferimento per mantenerlo vivo e chiaro). 

Non servono grosse introduzioni, se non definizioni ben calibrate e quanto basta del contesto. Se uno studente ha modo di avere di fronte a sé, in chiave contrastiva, testi stilnovisti, rinascimentali, contro-riformistici e barocchi, avrà subito un bagaglio di concetti e di forme letterarie che lo orienteranno, e faciliteranno, nelle letture successive, attivando sin dall’inizio la sua intelligenza di lettore. Ne guadagneranno gli approfondimenti successivi, che diventeranno più fertili, precisi e focalizzati.

E’ un modo di insegnare la letteratura più vivo e che val la pena di provare.

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La gestione del tempo nella scuola italiana

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Qualche riflessione sulla gestione del tempo nella scuola italiana, soprattutto per quanto riguarda il tenere insieme la calma che serve all’apprendimento e il poco tempo a disposizione.

La gestione del tempo è diventato negli ultimi anni un argomento assai dibattuto e la divulgazione didattica ha cominciato a dare consigli sempre più pratici. A livello internazionale, i libri di studiosi e divulgatori come D. Lemov, T. Bennett o P. McCrea hanno fornito ai docenti molti spunti interessanti, con un’attenzione particolare alla meccanica delle interazioni di classe e agli intoppi che possono ingolfarla.

La massa di pubblicazioni, pur utili, è però esplosa fino a diventare quasi ingestibile. Con questo articolo vorrei quindi fornire una sorta di piccola bussola per il contesto italiano; per evitare di annaspare tra i temi e gli approcci più disparati, suggerisco di concentrarsi, almeno per oggi, su un obiettivo spesso da noi non adeguatamente considerato, ma nondimeno essenziale: come non perdere tempo in classe.

Come non perdere tempo in classe?

Si tratta di un problema che nelle scuole italiane è particolarmente spinoso. Il tempo è poco, gli studenti tanti, le cose da fare un’infinità. Il tempo si disperde in mille rivoli come acqua da un conduttura mal sigillata. Una riforma sistemica della routine scolastica sarebbe assai utile, ma in mancanza di un’utopica rivoluzione, sarà il caso di sfruttare al meglio quel che si ha. 

Gestire bene il tempo significa guadagnare per le nostre classi qualcosa di preziosissimo: la calma. Parlo della tranquillità necessaria per ritornare su argomenti difficoltosi, seguire bene ogni singolo studente e dare modo a tutti di lavorare serenamente. Lo scopo di “efficientare” la vita di classe, infatti, non è fare tutto più freneticamente, ma meglio e più distesamente.

La perdita di tempo in classe è continua. Non penso solo agli scomodi cambi dell’ora, con i docenti che senza vere e proprie pause devono raccattare le loro cose, spostarsi e ributtarsi ogni volta su un nuovo registro elettronico.

Penso infatti anche al processo lungo e tedioso delle interrogazioni, o anche a tutto il tempo perso a richiamare all’ordine la classe (la gestione del comportamento meriterebbe in ogni caso un approfondimento a parte). A tutto questo si aggiungono il via-vai del bagno, le interruzioni per le varie comunicazioni e altre distrazioni che, interrompendo il filo della lezione, richiedono tempo ed energia per riprenderlo. Anche il fatto che le supplenze siano considerate ore vuote (quando la classe non viene direttamente fatta uscire da scuola) costituisce un’emorragia ingiustificata di tempo prezioso -e vi siamo fin troppo assuefatti.

Non è qui il caso di elencare tutti i possibili modi in cui si può risparmiare tempo. Voglio sottolineare soltanto che bisogna essere consapevoli di avere un problema strutturale di tempo. E’ appena il caso di rimarcare che la mancanza di tempo si trasforma immediatamente in un problema di qualità della nostra didattica, dato che la fretta si sposa assai male con l’apprendimento. 

Un trucco “salvatempo”

Per non rimanere nel vago, però, voglio portare qui l’esempio di un trucco “salvatempo”, quello delle lavagnette personali, che mi viene da un insegnante inglese, David Didau. Portarle in classe ha chiesto qualche giorno di adattamento, non di più, e i vantaggi si sono rivelati notevoli.

Le lavagnette altro non sono, nella versione fai-da-te da me adottata, che buste ad anelli lucide con dentro un foglio bianco, da usare per scriverci sopra con un pennarello cancellabile da lavagna bianca. Il docente pone alla classe una domanda, gli studenti scrivono la risposta e sollevano la lavagnetta perché il docente la veda.

Il vantaggio rispetto al fare domande a singoli studenti scelti più o meno a caso è nella rapidità. Domande a singoli studenti se ne possono comunque fare (come nel caso di risposte troppo articolate per una lavagnetta), ma spesso questo vuol dire chiamare uno studente in difficoltà e attendere una risposta che potrebbe anche non arrivare, poi un altro, poi un altro ancora; significa perder tempo a richiamare quelli che risponderebbero senza alzare la mano oppure quelli che colgono l’occasione per distrarsi. Dettaglio non da poco, con le chiamate individuali si scopre la risposta soltanto di una persona, o di poche, e non di tutti.

Con le lavagnette tutti sono chiamati ad attivarsi, la concentrazione non si disperde, ogni studente gestisce il proprio tempo autonomamente (nei limiti del buon senso). Inoltre, cosa più preziosa di tutte, l’insegnante ottiene in maniera immediata una fotografia di come sta andando la comprensione in classe:

  • Quanti hanno capito?
  • Quanti no?
  • Quali tipi di errore sono stati fatti?

Senza le lavagnette, il docente avrebbe avuto un quadro molto più vago delle difficoltà della classe o non le avrebbe percepite proprio. Rendendosene conto solo al momento della valutazione, sarebbe dovuto tornare precipitosamente indietro su argomenti già svolti. La perdita di tempo a quel punto è massiccia e corrisponde al momento in cui ci accorgiamo di essere, come dicevamo, drammaticamente indietro col programma. La lavagnetta, così banale, ci avrebbe salvato molto tempo prima.

Attenzione costante

Ogni docente può inventare i propri sistemi di gestione del tempo, o adattarne di vecchi alle proprie materie e alle proprie classi. Quel che importa è che rimangano costanti la tensione e l’attenzione al non disperdere quel ristretto patrimonio di ore e minuti che ci è dato perché è fin troppo facile ritrovarsi ad inseguire la propria stessa didattica. Si fa più fatica, gli studenti hanno più difficoltà e alla fine si rimane con un senso di amaro in bocca. Molto meglio organizzarsi prima e darsi modo di tirare il fiato. Non ce ne pentiremo.

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Il difficile ruolo dei presidi visto da un docente

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Con questo articolo vorrei ritornare ancora sul ruolo dei presidi, prendendo spunto da quanto scritto da Paolo Fasce, ma proponendo una prospettiva diversa, inevitabilmente legata alla mia prospettiva di docente.

Riguardo al ruolo dei presidi vorrei contribuire anche io con una riflessione su una delle note più dolenti della scuola italiana: la cosiddetta governance.

La governance scolastica è il “chi fa cosa nella scuola” ed è una questione particolarmente seria perché, come rileva Paolo Fasce,  pone dei problemi strutturali. E’ perciò necessario dipanare il gomitolo di atteggiamenti, azioni, responsabilità e, importantissime,  aspettative che finiscono per creare miscele esplosive.

Il primo passo

Capire cosa sta succedendo nelle scuole, in modo da diminuire il più possibile l’aggressività che divide presidi e docenti.

Nell’analisi di  Fasce la metafora è non a caso agonistica: quello di Davide contro Golia fu un duello mortale (e a spese di Golia).

Fasce non ha tutti i torti, dato che i docenti riottosi esistono, ma non corriamo il rischio di banalizzare il rapporto tra docenti e dirigenti?

E’ vero che il preside è solo: come potrebbe non sentirsi in trincea una persona che con pochissimi strumenti deve coordinarne un centinaio? 

E il preside, come Fasce giustamente ricorda, è anche un “capo-ufficio”, tanto è vero che tutti i problemi sollevati da Fasce nell’articolo sono di tipo amministrativo: ritardi, iniziative non a norma, richieste “risibili”. 

Trovo assai significativo che Fasce abbia messo in cima questi problemi, e non quelli didattici.

Dal bunker in cui è costretto, il preside vede principalmente questo, e non potrebbe essere altrimenti. Una folla di docenti, decine di classi, centinaia di studenti, una mole enorme di problemi amministrativi.

Quanto da vicino può osservare un preside le dinamiche di classe, la didattica, le esigenze e anche le idiosincrasie dei suoi docenti? La visione del preside è strutturalmente d’insieme.

Di contro, la visione di un docente è quella più di dettaglio, talora vis-à-vis con uno studente. Tra le due posizioni c’è una distanza abissale che non è colmata da nulla. 

I docenti avrebbero bisogno di una struttura tecnico-professionale che li sostenga da vicino (fornendo aiuto e anche critiche), ma questa semplicemente non esiste. 

Il docente in cerca di cooperazione o di aiuto vede solo il preside, la cui attenzione però è catturata da quel che diceva Fasce: controllare il rispetto delle leggi, rispondere ai superiori, assorbire tutto quello che si riversa sulla scuola. 

Se non ci si rende conto del problema di sistema, che trasforma presidi e docenti in capponi manzoniani, i docenti finiscono per vedere nel preside solo uno sceriffo e i presidi nei docenti in difficoltà solo “figure oppositive” (senza nulla togliere al fatto che i veri docenti oppositivi esistono).

Sulla distanza tra i due ruoli bisogna lavorare in due modi.

Da un lato occorre diminuirla, fornendo la scuola di un middle-management che raccordi dirigenza e docenza aiutando entrambe: insegnanti esperti con un ruolo di guida e accompagnamento.

Dall’altro, è bene sapere che questo iato esiste e bisogna non farsi ingannare dalla prospettiva: le richieste che Paolo Fasce ritiene “risibili” quali sono? E quanto sono davvero risibili?

Alcune lo saranno senz’altro, ma altre sono risibili dal punto di vista del sistema, non di quello personale. E quanto accurate sono le idee che un preside si forma sui propri docenti sulla base di incontri occasionali e voci di corridoio? Eppure ai presidi capita di essere assai perentori nei giudizi, cosa che influenza molto ciò che si considera risibile oppure no.

Un esempio tipico è quello della gestione della disciplina:

Alcuni docenti faticano a tenerla e i genitori si lamentano. Il preside lo avverte come un problema, ma il tempo che gli può dedicare si misura, considerato tutto il suo daffare, in minuti, forse qualche ora.

Quanti presidi (e quanti docenti, se è per questo) ne concludono che il docente in questione si deve attrezzare meglio ed evitare di diventare un problema? Difficile dirlo, ma tanto non è questo il punto: per illuminato che sia, un preside tempo da dedicare ad un singolo docente non ne avrà mai abbastanza.

Accanto al docente in difficoltà ci vuole dunque un docente senior che possa seguire la questione, valutarla e intervenire di conseguenza.

Questo sarebbe d’aiuto a tutti, anche al migliore dei docenti, beninteso, e renderebbe molto più solidamente motivate le sanzioni residue che andrebbero comunque irrogate nei casi in cui è davvero necessario.

Discorsi analoghi riguarderebbero anche tanti altri temi caldi, come la formazione professionale continua (qui interessanti spunti dall’Inghilterra) o la valutazione scolastica.

C’è tra i docenti, come ovunque, una percentuale di persone inadeguate, ma spesso il punto dolente è strutturale, non personale. O meglio: è l’incancrenirsi di certe situazioni che lo rende anche personale.

Ogni intoppo a cui non si può dedicare tempo sufficiente diventa prima un problema e poi una rogna. Per i presidi, soli, sotto stress e con responsabilità smisurate, ogni cosa diventa un problema e si candida facilmente a diventar rogna. 

E’ fin troppo frequente che quindi un preside finisca per ragionare in termini di deficit-model: si imposta il lavoro non per ottenere il meglio, ma per sanzionare il peggio.

Il problema è che tale modello non funziona: ottiene un impegno soltanto burocratico, non profondo, entusiastico e vissuto (come si spiega bene qui).

La cornice peraltro non aiuta: tra vincoli ministeriali e pronunciamenti dei tribunali, il messaggio che arriva a tutti a scuola è che l’importante sono la forma e le carte, non gli studenti e l’apprendimento, se non in senso residuale.

Modificare questa cornice burocratica sarebbe essenziale, così come il costruire scuole più serene. In attesa di tutto questo, i docenti dovrebbero cercare di capire di più i vincoli in cui si muove la scuola e i presidi l’estrema delicatezza del loro compito: la scuola si migliora tutti insieme.

Bullismo e umiliazione: una riflessione sulle parole del ministro Valditara

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Le parole del Ministro su bullismo e umiliazione sono state un problema, ma il dibattito pubblico è finito fuori fuoco.

In una recente intervista il Ministro Valditara ha parlato di bullismo e umiliazione, dando inizio (inevitabilmente) ad una serie di polemiche piuttosto concitate. Ciò è comprensibile, perché la parola "umiliazione" raramente ricorre sulla bocca degli educatori, soprattutto come strumento pedagogico.

I commenti indignati sono stati tanti e tali che il Ministro è ritornato sull’argomento ritrattando il termine, da lui stesso definito “inadeguato”. Ha anche aggiunto, in sintesi, che  ai bulli si tratta piuttosto di far “imparare l’umiltà di chiedere scusa”.

In questo senso l’episodio si può ritenere chiuso: il Ministro ha definitivamente chiarito come non intendesse dire che su un bullo si deve infierire fino a fargli scontare la propria colpa.

Si potrebbe obiettare che ciò forse era chiaro fin dall’inizio, ma non ha torto chi ha richiamato il Ministro a una maggiore attenzione, dato che il rischio di un uso strumentale di affermazioni facilmente fraintendibili può essere assai dannoso.

Cosa sarebbe successo se qualcuno l’avesse preso in parola e fosse passato a vie di fatto?

Fine della questione, allora? A dire il vero, no. Al netto dell'”umiliazione”, il ragionamento del Ministro era in realtà ampio e articolato, con varie idee che sono passate sottotraccia e che invece è il caso di vedere in dettaglio. 

Vediamo in dettaglio il ragionamento del Ministro:

Il punto di partenza del Ministro era un caso specifico di bullismo in cui un ragazzo ha preso a pugni un’insegnante. In realtà però non ogni aggressione configura un atto di bullismo.

Il bullismo, nella ricerca internazionale, è caratterizzato dalla reiterazione nel tempo, con lo scopo di causare danno o malessere. Non è affatto detto che il caso citato dal Ministro fosse bullismo. Era qualcosa di altrettanto grave, ma concettualmente diverso. 

Può sembrare una distinzione da poco, ma raggruppare ogni comportamento negativo sotto una definizione onnicomprensiva può poi rendere difficile intervenire nel modo giusto.

E questo lo si vede bene nel prosieguo del ragionamento, che si è portato dietro una notevole ambiguità: quando egli ha parlato di sospensioni eccessive che finiscono per assomigliare ad un “abbandono” del bullo al suo destino, egli ha associato al bullismo la criminalità da strada e lo spaccio.

Su questo non si è soffermato nessuno, ma qui il Ministro sta facendo confusione: droga, bullismo e criminalità sono cose assai diverse e non correlate. Il bullismo è un fenomeno che riguarda la scuola primaria (elementari e medie) più ancora che le superiori e non ha a che fare col “crimine”, bensì con gli insulti, le discriminazioni, le prevaricazioni e soprattutto con le dinamiche di gruppo tra pari.

Di nuovo: le parole del ministro su questo punto non sono state eclatanti come quelle sull'”umiliazione”, ma rischiano di confondere anch’esse le acque in un ambito che è già abbastanza complicato di suo.

Il Ministro ha poi proseguito…

Al netto di questa nebulosità di fondo, il Ministro ha poi proseguito con alcune “ricette”, che sono state forse la parte più trascurata del suo intervento (anche perché forse le ambiguità di cui abbiamo già detto non appartengono soltanto al Ministro, ma un po’ a tutto il dibattito pubblico, spesso corrivo e superficiale).

La parola “umiliazione” ha obliterato tutto il resto – e questa è la ragione principale per cui un termine del genere andava accuratamente evitato – ma quel che il Ministro stava dicendo è innanzitutto che il bullo deve essere seguito dalle istituzioni, in secondo luogo che deve imparare la responsabilità dei propri atti e che in qualche modo egli deve riparare i danni da lui stesso causati di fronte alla collettività.

A dirla tutta, questo non è troppo diverso o troppo lontano da quello che la ricerca scientifica ha rilevato come efficace nel trattamento del bullismo. Il bullismo è un problema che deve essere affrontato a livello di comunità (la scuola, ma non solo) e il suo contrasto passa attraverso il coinvolgimento di insegnanti, educatori, autorità scolastiche, specialisti e soprattutto dei ragazzi, compreso il bullo.

L’ethos e l’atmosfera che docenti e presidi creano all’interno della scuola possono far sì che sia l’ambiente stesso ad essere poco fertile per il bullismo, rendendo evidente e sentito come un tale comportamento non sia né apprezzato, né tollerato.

Nel bullismo (ed ecco perché va distinto da altri comportamenti negativi) un ruolo centrale è legato all’atteggiamento degli astanti (o osservatori): laddove chi osserva l’atto di bullismo è indifferente, o addirittura divertito, il bullismo può prosperare. Allo stesso modo, dove gli insegnanti sono indifferenti o minimizzano, si offrono ai bulli spazi per affermare la propria aggressività. 

Il Ministro ha insistito molto su attività “compensative”. Gli approcci come il Kiva finlandese o il metodo Pikas concepiscono la “compensazione” come conversazioni in cui il bullo è portato a riflettere su stesso e trovare il modo di por rimedio a quanto ha fatto, ma se delle attività del tipo “lavori socialmente utili” possano essere valide oppure no è qualcosa che si può dibattere laicamente, senza preclusioni o sospetti. Il tutto senza dimenticare che a monte di qualsiasi intervento educativo deve rimanere ben fermo, come principio fondamentale, che a chiunque devono essere garantite la sicurezza e la protezione da qualsiasi abuso o molestia.

In conclusione

Quello dell'”umiliazione” è stato non più di un increscioso incidente, ma ora servono due cose: da un lato una maggiore ponderatezza e precisione, dall’altro un impegno strutturale che vada oltre dichiarazioni estemporanee. E’ il benessere degli studenti che ce lo impone.

Per approfondire: 

La valutazione degli studenti, dalla DDI al futuro

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Facciamo luce insieme su uno dei problemi più sentiti e attuali: la valutazione degli studenti, alla luce dell’attuale situazione scolastica

Nel generale scombussolamento della didattica provocato dalla pandemia e dal conseguente ricorso alla DDI, quello della valutazione degli studenti si è rivelato uno dei problemi più sentiti. Di sicuro è quello che più spesso finisce sui giornali, con tutto lo scalpore che ne segue, a dimostrazione delle tensioni che esso genera.

Molti docenti sono sul chi vive, e non per ragioni astruse. Se tra gli studenti l’abitudine di imbrogliare era già pervasiva quando di DaD o DDI non v’era il minimo sentore (tanto che Marcello Dei ha potuto scrivere un’intera monografia al riguardo: Ragazzi, si copia, figurarsi ora che le possibilità di controllo sono ridotte praticamente a zero.

È per questo che alcuni zelanti colleghi hanno concepito trovate insolite e crudeli quali l’obbligo di parlare bendati o di fissare la web cam senza interruzioni, a rassicurazione della genuinità delle risposte.

Si tratta di episodi che fanno cadere le braccia e che dimostrano una volta di più come talora la scuola italiana faccia una fatica assurda a reagire correttamente a problemi reali, finendo per polarizzare la discussione in opposte banalizzazioni: da un lato un atteggiamento alla “sorvegliare e punire” che non produce risultati (pur godendo di una legione di convinti fautori) e dall’altro la superficiale tolleranza di un fenomeno che viene ridotto a goliardia.

Forse è il caso di ritornare sui fondamentali e di ricordarci le ragioni e gli scopi della valutazione scolastica. Spero che tra docenti si sia tutti d’accordo sul fatto che la valutazione abbia principalmente due scopi (nessuno dei quali, sia detto en passant, può sopravvivere a imbrogli sistematici): rendere intellegibili i progressi fatti da uno studente e fargli capire dove e come può ancora migliorare.

In gergo specialistico, ma stranoto a tutti gli insegnanti, la prima è una valutazione sommativa, la seconda, la più importante nella scuola dell’obbligo, formativa.

Attraverso un voto (sommativo) facciamo capire quanto lo studente si sia avvicinato all’obiettivo che volevamo fargli raggiungere; attraverso un giudizio (formativo e spesso e volentieri discorsivo) gli facciamo una diagnosi.

Il sistema di valutazione della scuola italiana è efficace nel perseguire questi obiettivi? In realtà, no. Il nostro è un sistema caotico che anche in assenza di pandemie fa danni in tutte le direzioni e scontenta tutti senza fornire dati utili.

Gli studenti vivono la valutazione con sospetto e ansia, i docenti con stress. Gli studenti non vogliono essere valutati e i docenti li inseguono con compiti e interrogazioni, sfinendosi reciprocamente.

Anche il più convinto sostenitore della docimologia italiana finisce per lamentarsi di “non avere il tempo di interrogare” o di dover fare i salti mortali per riuscire a mettere un voto agli acrobati delle assenze strategiche.

Si fa fatica a capire perché questo sistema così scombinato sia anche così inamovibile, ma non è un mistero. In parte c’entrano l’abitudine e la tradizione: la scuola fa parte del nostro panorama infantile in maniera così profonda che non immaginiamo possa cambiare. Dall’altro, c’è una funzione impropria di cui più o meno consapevolmente non sappiamo fare a meno, quello della “retribuzione”.

I voti sono premi e castighi che noi docenti gestiamo come fossimo occhiuti confessori o, peggio, censori. Molto spesso il voto altro non è che uno strumento di governo della classe.

La didattica digitale ha inferto dei pesanti colpi a questo gioco. Quand’anche non si abbia della valutazione scolastica l’opinione severa che ho illustrato e anzi la si trovi adeguata, bisogna riconoscere che è un gioco al quale per ora non si può più giocare. È necessario trovare delle alternative.

Se non possiamo impedire agli studenti di alterare la valutazione sommativa con l’imbroglio, sospendiamo la valutazione sommativa e posponiamola a quando sarà possibile farla davvero. Per adesso i voti non ci servono.

Ci serve piuttosto che gli studenti imparino qualcosa. Se pensiamo che gli studenti imparino qualcosa soltanto se continuamente minacciati di votacci, la mia proposta deve sembrare un non sense, ma bisogna anche riconoscere che raramente le minacce rimangono efficaci a lungo.

Proviamo allora a far così: durante la didattica digitale facciamo soltanto valutazione formativa, ricordando quanto più spesso possibile agli studenti che quel che si fa è in vista di valutazioni sommative serie, da svolgersi più avanti e in cui non sarà possibile imbrogliare. Invece di fare tanti compiti e interrogazioni con calendario e argomenti più o meno casuali, faremo fare tante esposizioni orali, relazioni, riassunti, simulazioni di esame, laboratori e lavori di gruppo, il tutto in preparazione di una prova uguale per tutti, ponderata, programmata ed elaborata per tempo, da tenere alla fine del quadrimestre o dell’anno. Intessute in tutte queste attività troveranno agevolmente luogo le valutazioni formative, quelle che entrano davvero nel merito dell’apprendimento.

In questo modo uno studente non è incentivato a trovare mezzucci per scappottarsi questa o quella prova di valutazione, ma a elaborare un metodo di studio di ampio respiro; il docente non deve andare a caccia di numeretti da raccattare alla bell’e meglio; si riduce a zero l’attualmente spropositata conflittualità per eventuali “ingiustizie” nella valutazione, che possono essere reali come inventate, ma che finiscono per essere inevitabilmente evocate se la valutazione si riduce a domande random fatte in momenti più o meno casualmente sparpagliati nell’anno scolastico.

La mia idea è che una volta fatto tutto questo, la didattica digitale possa procedere più spedita e tranquilla. I docenti penserebbero a insegnare, gli studenti ad imparare. Certo, sarebbe bello avere studenti maturi e motivati a prescindere da come vogliamo strutturare la nostra didattica, ma maturità e motivazione sono cose che si costruiscono e si insegnano anch’esse.

E avere un sistema valutativo funzionale, con risorse più ampie di quello attuale, che alla fine conosce solo prediche, minacce e qualche occasionale blandizia, di sicuro aiuta moltissimo.

Oppure possiamo continuare come abbiamo sempre fatto, e continuare a lamentarci degli studenti, senza neanche accorgerci di quanto siamo ripetitivi. A noi la scelta.

Dalle piattaforme didattiche ai banchi a rotelle

in Approcci Educativi/STEM ed Esperienze digitali by

Riflessioni di un insegnante, tra la fine di un incredibile anno scolastico e un futuro ancora tutto da scoprire, tra le piattaforme didattiche digitali e i nuovi banchi

Come tutti gli insegnanti, sono in mezzo al guado: finito un anno scolastico terribile, attendo con una certa ansia che cominci il prossimo. Non sapendo come potrò lavorare, pensando alle piattaforme didattiche e ai banchi che troveremo in classe, mi limito a mettere in fila qualche breve pensiero saltando di palo in frasca.

DISCIPLINA, SPAZIO E TEMPO

Una delle prime cose che ho notato in dad è stato che ho smesso di fare il controllore della classe: niente esortazioni a fare silenzio, niente note, quasi niente rimproveri. Il lato negativo di questa mancanza è stato evidentemente che gli studenti, a distanza, potevano inabissarsi senza lasciare tracce, ma è anche vero che gli studenti in dad non soffrivano della ristrettezza delle nostre aule. Ognuno aveva il suo spazio, almeno in termini di privacy (altro è capire se avessero spazi adeguati allo studio, e non è un problema banale), quindi non si pestavano i piedi a vicenda. Se ciò è da un lato la morte drammatica e definitiva della socialità, dall’altro potremmo forse notare che la “normale” socialità delle nostre scuole, piuttosto monca, i conflitti li favoriva più che smorzarli.

Come sviluppare un’armonica vita di comunità in ambienti in cui l’unico luogo di relax è la toilette? Se la dad ha di fatto eliminato ogni possibile area di “contenzioso”, in presenza possiamo organizzarci per gestire meglio i bisogni degli studenti, la cui frustrazione, nell’asfittica scuola “normale”, porta inevitabilmente a comportamenti sbagliati o inaccettabili (rabbia, maleducazione, ecc.).

In questo senso, la dad ha anche sfatato un altro mito intoccabile che invece incide pesantemente sulla qualità del tempo scolastico: quello del lavoro diuturno e senza pause. Nella dad si è considerato naturale fare quel che in presenza pareva impensabile: 10 minuti di pausa ogni 50. Possiamo portare un modulo del genere anche in presenza? Non è possibile credere che il cervello degli studenti – e dei docenti – possa dare il meglio di sé alternando lezioni con un intervallo di pochi minuti e con scampoli di riposo tra l’uscita di un professore e l’arrivo dell’altro.

Una routine più consona ai bisogni tanto dei docenti quanto degli studenti significa contribuire a ridurre, in un colpo solo, tanto l’oppositività studentesca quanto la possibilità di nascondersi dietro a scuse. Una scuola avara di spazio, di tempo e di disponibilità può solo fare la faccia feroce, mentre una scuola che offre molto, può anche legittimamente chiedere molto ai suoi studenti.  Ed è meglio disinnescare un problema alla radice, piuttosto che contenerlo dopo.

LE PIATTAFORME DIDATTICHE

Al di là di tempo e socialità, se c’è una cosa che vorrei portare dalla distanza alla presenza, sono le piattaforme didattiche digitali. Non mi interessa elogiarne una in particolare poiché il punto vero è che qualsiasi piattaforma minimamente decente ha il potere di rendere trasparente il nostro lavoro: si possono consultare facilmente i materiali (e se ne possono caricare di tutti i tipi), la correzione è più trasparente e puntuale (con un feedback molto più ricco), le prove dei ragazzi ordinatamente catalogate e consultabili. Il tutto è poi disponibile per analisi successive, scambi didattici, diffusione di buone pratiche: un insieme che permette di superare in blocco e di slancio l’enorme mole di scartoffie anodine e oscure che compiliamo ora. Una buona piattaforma didattica è insieme registro di classe e personale dell’insegnante, diario dello studente, comunicazione alla famiglia, programmazione e rendicontazione didattica. Alla piattaforma digitale quindi non rinuncerò più, punto e basta.

LA PROGETTAZIONE DIDATTICA

Con tutti i limiti posti dalla dad, i docenti italiani hanno dovuto fare di necessità virtù e inventare. Ad esempio, se le nozioni tipiche delle varie discipline erano fin troppo facili da trovare online, ci si è ingegnati a elaborare compiti in cui quelle nozioni venivano calate in contesti specifici della classe, rendendo impossibile trovare le risposte su internet. Mi spiego: se l’analisi di una poesia di Saba è facilmente rintracciabile su internet, un confronto tra una poesia di Saba e un’altra poesia letta in classe è impossibile da trovare, dato che “internet” non sa quali sono le poesie fatte in classe. A quel punto, si possono usare anche Wikipedia o altri siti, ma per fare un buon lavoro uno studente ci deve mettere del proprio. Ovviamente questo non esaurisce il problema della verifica degli apprendimenti, ma intanto sono stati elaborati degli strumenti che si possono senz’altro portare nella didattica in presenza, che a sua volta permette di ritornare a valutazioni più tradizionali.

IL LABORATORIO DEL DOCENTE E LA GADGETTISTICA PEDAGOGICA

C’è un aspetto in cui la dad vince su tutta la linea: il laboratorio del docente. Nelle mie lezioni in dad ero a casa mia e avevo tutti i miei materiali sottomano: la mia biblioteca, i miei dvd, i miei appunti, tutto. Nella didattica in presenza “normale”, invece, la mia didattica è limitata da quel che posso portare di classe in classe, e che devo raccattare alla svelta alla fine dell’ora. A scuola, a differenza di casa mia, non ho intorno un ambiente costruito da me ed è l’ambiente a dettarmi la didattica, non il contrario. Eppure non è un destino: nelle scuole anglosassoni il docente ha la sua aula e sono i ragazzi a girare. Sarebbe una cosa da copiare, anche perché insieme allo spazio da organizzare, le scuole anglosassoni spesso assegnano ai docenti anche un budget da spendere per materiali didattici: che si tratti di mappe, tavole o strumenti elettronici, la scuola compra ciò che il docente ritiene funzionale al progetto didattico che sviluppa (e di cui è responsabile). In questo modo la scuola non si riempie di gadget inutili, rovesciati sulla scuola in base alla moda pedagogica del momento (con il poco gradevole corollario di far passare per conservatori i docenti che di quei materiali non avevano affatto bisogno), ma i docenti vengono chiamati ad essere attivi e responsabili. Lo schema attuale del rapporto tra l’amministrazione e i docenti è molto lontano da questo modello: l’impressione è di un’amministrazione che spinge per l’innovazione, ma in maniera confusa, e un corpo docenti che fa resistenza, spesso giustamente, ma non raramente per pura diffidenza.

Tra scuola e amministrazione andrebbe invertito il rapporto, rendendo la prima più autonoma e la seconda più snella. Questo va ben oltre le riflessioni sparse – e sintetiche – che avevo promesso all’inizio, quindi concludo qui.

Approfondimento

Se ti interessa l’argomento e vuoi approfondire con degli strumenti, abbiamo pensato a una selezione per te.

Per avere sempre sott’occhio la Terra, una mappa da appendere alla parete della classe 

Per un ripasso di grammatica da fare alla LIM: Smartgrammar 

Come Analizzare La frase Con La Grammatica Valenziale 

Questi primi venti giorni di didattica a distanza

in Approcci Educativi by
L’esperienza di Francesco Rocchi, in questi primi venti giorni di scuole chiuse e didattica a distanza.

Come insegnante, anch’io mi sono trovato da un giorno all’altro a lavorare da casa e a mettere in pratica la didattica a distanza, per come m’è riuscito di organizzarla in italiano e storia nel mio istituto tecnico.

Nei primi giorni, ho pensato che fosse utile recuperare quanto fatto, una sorta di ripasso generale, perché per molti studenti era una novità. Prima di imparare cose nuove, era meglio che imparassero a gestire il proprio apprendimento “digitale”. Inutile dire che questo ha dato tempo prezioso anche a me.

Terminato il ripasso-riscaldamento, ho iniziato a introdurre qualcosa di nuovo, ma sempre all’interno della rielaborazione di concetti e nozioni già noti.

Mi è parso meglio evitare di proporre uno schema del tipo “Abbiamo finito col ripasso, ora si va avanti”. In italiano, ad esempio, ho evitato di dire: “Ora facciamo Montale”. Piuttosto, ho ripreso due poesie già studiate, A se stesso di Leopardi e Annuncio di D’Annunzio, dicendo ai ragazzi: “Questa nuova poesia (Meriggiare pallido e assorto) è più vicina a Leopardi o a D’Annunzio? E perché?”.

Si noti che a una domanda del genere non c’è una risposta preconfezionata su internet. Forse sono andati a riprendere i loro appunti sulle poesie già fatte e li hanno tenuti davanti mentre cercavano di capire, ma ciò va benissimo: è un ripasso utile. Potrebbero anche essersi scaricati un’analisi della poesia di Montale, ma va altrettanto bene: per fare il confronto con Leopardi è necessario studiarsela bene. Per un eccezionale colpo di fortuna potrebbero anche aver trovato un confronto Montale-Leopardi già fatto, ma il compito richiedeva in ogni caso di scendere nel dettaglio della poesia e c’era da considerare anche quella di D’Annunzio. Insomma, sono ottimista.

In tutto questo non ho dimenticato il punto dolente fondamentale: ora gli studenti sono più soli, nonostante la strumentazione digitale.

Per evitare che si lascino andare o rigettino lo studio, i materiali di studio devono essere scelti con cura, e i libri di testo si prestano poco alla bisogna, dato che erano piuttosto respingenti anche prima. Mi sono così riproposto di usare oggetti di studio con cinque caratteristiche.

I materiali non devono essere troppo pesanti. Mi sono imposto di non dare documentari oltre la mezz’ora, se non spezzandoli. Su Rai Storia ce ne sono di eccellenti di un minuto o due, come “Un minuto di storia” di Gianni Bisiach. Con film e serie tv sono stato più lasco, ma sempre con prudenza. Allo stesso modo, niente letture (dal libro o narrative) troppo lunghe.

I materiali devono essere tanto comprensibili da poter essere fruiti senza assistenza. Questo significa fare massiccio uso di materiali divulgativi, illustrazioni, foto, testi narrativi, film. Non bisogna cedere alla tentazione di pensare “Se la cavino un po’ come possono!”. E non è facile trovare tutto ciò che serve nella situazione attuale.

Gli oggetti di studio devono essere delle sfide, o quanto meno suscitare domande. Ad esempio, per storia si può dare un’immagine che sappia ben catturare lo spirito o l’essenza di un passaggio storico importante, ad esempio di una battaglia, avendo cura che ci siano degli indizi da cui gli studenti possano cominciare a ragionare. Di quale battaglia si tratterà? L’importante non è azzeccarci, ma farsi venire in mente tutte le battaglie studiate.

L’esempio mi viene comodo perché ho proposto un quadro con una scena di soldati francesi sopraffatti dal nemico a Sedan, con l’idea che gli studenti si chiedessero: “Quali guerre ha combattuto la Francia nell’800? Quali ha perso? Quando?”. Altre volte ho fatto vedere dei video (ad esempio l’inizio del serial tv del 1982 su Marco Polo) o leggere delle poesie (come Proprietà di mercato vecchio di A. Pucci), chiedendo ai miei studenti di dirmi loro perché gli avessi dato quel materiale e a quali argomenti di storia si potesse ricollegare. Bonus: ancora una volta, non c’è una risposta reperibile già pronta su internet.

Si tratta piuttosto di genuine riflessioni meta-cognitive, con solidi agganci alle “nozioni”.

I materiali devono poter essere usati senza un particolare ordine cronologico. Mi son fatto l’idea che sia bene spaziare il più possibile su quanto già fatto, anche in maniera (apparentemente) disordinata, per tenere vivo il cervello degli studenti. In questo momento di confusione è facile che “il programma svolto” finisca nel dimenticatoio.

È bene allora richiamarlo il più spesso possibile alla mente. In altre parole, bisogna fare esercizio di “pratica variata” (che favorisce la memorizzazione) e di “pratica deliberata” (che migliora le competenze). Su questa falsariga, mi è venuto comodo in storia un lavoro che facevamo anche prima. Ho presentato dei testi su argomenti già trattati, ma con un taglio leggermente più approfondito, e ho chiesto loro di schematizzare creando due colonne: una per le nozioni già note e una per le nozioni nuove (o problematiche o curiose).

È l’ideale per affrontare possibili difficoltà senza ansia e si presta bene alla didattica per DSA. E neanche in questo caso internet si può sostituire alla testa di uno studente, dato il riferimento “interno” al lavoro già svolto dalla classe.

Perché la fruizione dei materiali sia possibile, infine, è bene non affrontare lavori di troppo largo respiro. Le unità di apprendimento devono essere tenute compatte, unitarie, vere razioni K del sapere, ovviamente stando attenti a non cadere nel superficiale. La comunicazione con gli studenti ora è inevitabilmente desultoria, per cui è bene che ogni volta che si stabilisce un contatto, nulla resti vago o in sospeso o rimandato ad altri incontri virtuali che potrebbero facilmente saltare.

È possibile fare didattica con le serie tv?

in Approcci Educativi/Arte, Musica e Spettacolo/Attività di classe by
Insieme a Francesco Rocchi scopriamo come utilizzare le serie tv per approfondire in classe argomenti di storia, riscoprire i classici e trattare temi di attualità.

Si possono utilizzare le serie tv in ambito scolastico, in particolare alle superiori? Prima di provare a capire come, possiamo soffermarci sul perché, visto che le serie televisive non nascono per scopi educativi, bensì di intrattenimento.

Una prima risposta è che la qualità di molte serie attuali è talmente alta che queste ormai sono di fatto cultura, non diversamente da romanzi, film, drammi ecc.

Una seconda risposta è che le serie tv sono il prodotto culturale con cui gli studenti hanno più familiarità. Costituiscono un gancio che è bene non trascurare, in una situazione in cui spesso docenti e studenti fanno fatica a trovare un terreno comune di interessi da condividere.

Se queste prime considerazioni possono sembrare ancora generiche o astratte, ce ne sono altre più specificamente didattiche che chiamano in causa la natura particolare delle serie tv.

Le produzioni attuali sono spesso opere sontuose che possono mettere in scena accurate ricostruzioni storiche, trattare temi sociali attuali e scottanti, riprendere classici della letteratura o sperimentare in maniera assai eclettica. Ma il loro tratto distintivo è evidentemente un altro, la serialità.

Il lungo arco narrativo delle serie, spesso cadenzato nel tempo, è tanto un limite quanto un’opportunità. Se è vero infatti che una stagione intera è lunghissima, è anche vero che un singolo episodio è molto più breve di un film.

Nei 40-50 minuti di un episodio si ha un’unità narrativa che può essere facilmente compresa. Spesso anche senza vedere tutta la serie (può bastare una rapida introduzione).

Didatticamente è più incisivo far vedere un episodio concepito per durare meno di un’ora che non lo spezzone di un film della stessa durata: il regista di serie tv, consapevole dei vincoli di durata, è specializzato nel riuscire a fare sintesi rapide ed efficaci.

Ciò permette di usare gli episodi con una maneggevolezza che i film difficilmente possono avere. Non solo possiamo trascegliere gli episodi che ci interessano di più, ma possiamo anche usare più serie contemporaneamente. Ciò risulta particolarmente utile per storia, come si può illustrare usando due serie come The Last Kingdom e Rome.

Già in un altro articolo avevo proposto l’uso di audiovisivi di varia natura al fine di creare un immaginario storico a disposizione degli studenti, ma qui possiamo approfondire in senso più specifico.

Un elemento importante della didattica del secondo anno delle superiori è il passaggio dall’età classica a quella medievale. Per capire entrambe le epoche bisogna che alcuni concetti fondamentali di taglio sociale e antropologico siano chiari, e il confronto tra le due serie può essere molto utile.

The Last Kingdom

The Last Kingdom è una storia ambientata nell’Inghilterra del IX secolo, incentrata sulle vicende di Uthred, un nobile sassone intenzionato a riprendersi quei possedimenti di cui le scorrerie dei danesi lo avevano privato (lasciandolo inoltre orfano).

Nel primo episodio di The Last Kindgom, Bebbanburg, dove vive Uthred, è un modesto insediamento di legno piuttosto povero, in cui solo un frate non è analfabeta e il re non ha a disposizione che qualche decina di soldati.

Rome

Rome invece parla degli anni di Cesare e di Augusto attraverso la storia di due legionari. Già l’analisi dei primi episodi delle due serie permette agli studenti di fare considerazioni importanti.

La Roma di Rome è una metropoli sontuosa, marmorea, enorme, con un sistema politico ben più articolato e complesso. Una simile sproporzione di mezzi si può vedere nelle scene di guerra.

Le battaglie tra danesi e sassoni sono poco più che mischie, se confrontate con quelle delle guerre civili romane. Quest’ultime coinvolgevano decine di migliaia di soldati e una catena di comando molto articolata. Tanto che alla fine era proprio l’esercito uno dei settori più alfabetizzati della società romana.

Perché gli studenti arrivino a cogliere tutti questi aspetti di civiltà è sufficiente porre loro alcune domande stimolo:

“Quali sono le dimensioni degli eserciti visti nelle due serie?”. “Quanti ufficiali ha Cesare e quanti il re sassone?”. “Descrivi Bebbanburg e Roma”.

A queste domande si potrebbe rispondere già vedendo i trailer. Ma mostrando il primo episodio di ognuna delle serie, gli spunti sono ovviamente di più e più sottili. E se non i primi episodi, altri che offrano adeguato materiale di lavoro. Serie del genere, hanno il potere di far ricordare molto più vividamente la storia, che qui non è “arida” narrazione da libro di testo, ma trama.

Scrubs: medici ai primi ferri

L’uso delle serie tv non è però ristretto alla sola storia. Morale, etica, scienza, questioni sociali: tutto può entrare nelle serie, proprio per quella alta qualità che ormai hanno raggiunto. I polizieschi in particolare offrono una serie di agganci e di temi di attualità tutt’altro che banali e scontati.

Ma talora può essere assai utile anche una serie come Scrubs: medici ai primi ferri. La serie, pur essendo comica ha vinto un Peabody Awards per come ha saputo trattare temi delicati come le malattie terminali.

A titolo di esempio dei polizieschi, cito soltanto un episodio di CSI Las Vegas sul tema della “legittima difesa”. La trama è semplice. Cinque persone su un aereo hanno ucciso un sesto passeggero: uno che aveva dato segni di squilibrio e minacciato di aprire il portellone in volo. Una situazione claustrofobica e pericolosissima, tale da far sì che i cinque vengano rilasciati. È omicidio o è legittima difesa?

Didattica e serie tv

Per didattizzare il lavoro è sufficiente interrompere la visione subito prima della scena in cui gli investigatori dicono la loro e chiedere agli studenti di esprimere la propria opinione. Fatto questo, si potrà vedere l’ultima scena. Dopo averla vista si può continuare a parlarne, o lasciare che la scena si sedimenti da sé negli studenti. Qualsiasi cosa si scelga di fare, credo che una riflessione come quella proposta da Grissom, il protagonista, sia da sola la dimostrazione del livello qualitativo raggiunto dalle serie tv.

Un utile episodio di Scrubs potrebbe invece essere “Le mie regole” (disponibile in inglese qui). In questo episodio, per quanto esilarante, i protagonisti sono portati a chiedere quanto e fino a che punto il rispetto delle regole, o la loro trasgressione, sia importante, soprattutto quando in gioco ci sono la vita e la morte dei pazienti.

Attraverso una storia corale vengono offerte risposte diverse, non auto-escludenti, tutte meditate e capaci di suscitare ulteriori riflessioni. In 25 minuti si ha non solo una problematizzazione approfondita e consapevole, ma anche una maniera molto chiara di porre il problema sul piatto.

Mi piacerebbe parlare anche di altre serie (Law & Order, Peaky Blinders, Empress in the palace, Le Bazar de la Charité o anche un classico come The Twilight Zone), ma forse è sufficiente concludere qui sperando di aver fornito qualche spunto utile.

La competenza di scrittura: qualche considerazione empirica

in Approcci Educativi by
Francesco Rocchi ci parla della competenza di scrittura e ci porta degli esempi dalla sua classe di secondaria superiore.

Nel lavoro di un docente di lettere delle superiori insegnare la competenza di scrittura è uno dei compiti più importanti, nonché uno dei più difficili.

Vorrei fare alcune considerazioni pratiche, nate dall’osservazione del lavoro dei miei studenti, sperando che possano offrire qualche spunto per orientare la didattica della scrittura. Oggi tendiamo a concepire lo scrivere come una competenza puramente trasversale. L’idea invalsa è che se sei abituato ad adoperare correttamente i connettori logici, la punteggiatura e il lessico, sei praticamente a cavallo in qualsiasi campo dello scibile.

Io vorrei mettere in discussione questo assunto. In effetti la concatenazione logica, la proprietà linguistica e la punteggiatura risultano spesso assai difficili ai miei studenti.

Nel corso degli anni, però, mi sono accorto che tali debolezze, a volte eclatanti, non compaiono sempre  nelle produzioni scritte dei miei studenti.

Gli stessi studenti che una volta scrivono un testo del tutto destrutturato, in altre occasioni sono in grado di produrre dei testi scorrevoli. Come è possibile?

La mia ipotesi è che la competenza della scrittura sia strettamente legata alla padronanza della materia trattata nel testo.

Tra i testi dei miei studenti, a essere poco leggibili sono soprattutto quelli che parlano di letteratura o di storia, mentre gli elaborati dedicati ad argomenti più personali o comunque meglio posseduti sono assai più validi.

Qui di seguito riporto in parallelo alcuni esempi di scrittura da parte di alcuni miei studenti, a scopo esemplificativo.

Nessuno dei due testi di questo studente è perfetto (tutt’altro), ma il secondo è decisamente superiore. Il primo è scarno e stentato, mentre il secondo, sia pure con dei difetti importanti, è un testo leggibile e strutturato.

Nel secondo ci sono anche sicuramente molte frasi fatte, ma questo non è un problema, quanto piuttosto la soluzione: diventando competenti di un argomento se ne interiorizza non solo il lessico, ma anche il frasario e l’espressività.

Ed è proprio per questo che nel primo testo si hanno espressioni faticosissime (come ai rr. 4-5), mentre il secondo è scorrevole.

Anche in questo caso, nessuno dei due testi è perfetto.

Ma il secondo, pur presentando diverse costruzioni e connessioni “a senso”, rimane comunque articolato, sensato, percorribile facilmente nonostante gli errori.

Il primo è molto stentato ed è basato su espressioni e concetti orecchiati in classe, ma non ancora interiorizzati.

Senza il lavoro di spiegazione preliminare in classe su “Corrispondenze”, probabilmente il primo testo non sarebbe stato scritto del tutto, mentre il secondo è del tutto autonomo e personale (fanno fede gli errori stessi…).

La padronanza della materia, dunque, sembra riverberarsi nella chiarezza espressiva. Inserisco un ulteriore esempio e poi passo alle conclusioni.

Questi è probabilmente il migliore dei tre studenti, ma le differenze tra i testi mi sembrano ugualmente notevoli.

Il primo testo è un centone di informazioni non ben possedute, il secondo è un testo quasi inappuntabile, a parte qualche piccola sbavatura.

Un tempo Catone avrebbe detto:

Rem tene, verba sequentur

Avere chiaramente contezza di ciò che si dice aiuta a dirlo meglio. Questo implica  due cose:

  1. nella nostra scuola si deve scrivere molto di più (lo si dovrebbe fare praticamente tutti i giorni)
  2. dobbiamo incrociare questo allenamento con un approfondimento ragionato delle conoscenze in ogni campo.

La ricerca pedagogica ha ampiamente riconosciuto l’importanza della “conoscenza” non solo come qualità, ma anche come quantità.

Le due cose non sono separate, e la scrittura può essere il perfetto crogiolo in cui fonderle. L’attività di apprendimento profondo richiede che uno studente non venga semplicemente “esposto” alla conoscenza, ma che egli la possa manipolare, categorizzare e rielaborare in termini personali.

In altre parole, è necessario che scriva, in ogni occasione.

Spero che gli esempi riportati, per quanto minimi, mostrino nei fatti questa sovrapposizione.

Credit foto: Fredrik Rubensson

Perché la sintassi è così difficile per gli studenti?

in Attività di classe by

Tra le materie che insegno nelle mie classi di scuola superiore, la sintassi è quella che gli studenti trovano più difficoltosa. Anzi, per alcuni studenti si può tranquillamente dire sia un mistero doloroso sul quale non si riesce ad avere nessun controllo.

A me non è del tutto chiaro perché la sintassi risulti così ostica. In questo senso, sono nel pieno della“maledizione della conoscenza”. Mastico da talmente tanto tempo questi concetti che non riesco più ad immaginare che non possano essere di immediata evidenza.

In realtà c’è un elemento di disturbo che so essere problematico: il modo in cui la grammatica è stata insegnata ai miei studenti alle scuole elementari e medie. I miei studenti arrivano da me con in testa alcune convinzioni salde e quasi irremovibili, cosa che in sé sarebbe anche positiva, se non fosse che queste convinzioni sono radicalmente sbagliate.

Tipicamente: il soggetto è quello che compie l’azione, il complemento oggetto risponde alla domanda “chi? Che cosa?”, il verbo serve ad esprimere le azioni, e così via. Queste idee sono scolpite nella loro mente per due diverse ragioni.

La prima è che la grammatica è stata insegnata così ai loro maestri e professori, i quali spesso si limitano a riproporla ai loro allievi. La seconda è che queste semplificazioni sono facili da memorizzare e in certa misura rendono apparentemente più automatico approcciare la frase, anche se poi si finisce facilmente per confondersi e sbagliarsi.

Il risultato di questa didattica è che se si chiede  agli studenti di analizzare, ad esempio, la frase “A Marco piace la pizza”, “la pizza” diventa invariabilmente il complemento oggetto, perché la frase è interpretata così: “A Marco piace chi o che cosa? La pizza”.

Altro esempio: se il verbo è quello che esprime l’azione, diventa difficile inquadrare tutti quei sostantivi che, guarda un po’, esprimono un’azione o un movimento, come “corsa”, “salto” o “interruzione”.

Specularmente, diventa difficile capire che azione stia svolgendo il soggetto di una frase come “A Marco la rosa sembra molto bella”…visto che “la rosa” non fa proprio nulla.

Però non sarebbe giusto scaricare tutta la colpa sui colleghi delle medie (che in fin dei conti hanno una formazione perfettamente sovrapponibile a quella dei docenti delle superiori): la difficoltà degli studenti con la sintassi va al di là anche della confusione creata da una didattica non appropriata.

Dopo numerosi tentativi e fallimenti, in classe ho improvvisato una metafora che forse può fare un po’ di luce nelle menti spaesate degli studenti e cominciare a rimetterli nel giusto ordine di idee.

Il punto di partenza della mia metafora didattica, che è anche il concetto più difficile da far capire, è che nella sintassi non contano i significati, ma le funzioni.

“Soggetto”, “predicato verbale”, “complemento”, ecc. ecc. non sono “cose”, ma “ruoli”. Un sostantivo (che è una “cosa”) può quindi prendere il ruolo di soggetto o complemento, a seconda di dove viene messo e di quale funzione svolge.

Non è un’idea facile da comunicare. Gli studenti non vedono la lingua, ma solo i suoi significati. Non vedono le parole, ma solo quel che rappresentano. Detto in altre parole, per loro quella di Magritte sarà sempre una pipa. Con questa sorta di cecità per la struttura astratta della lingua, capire la sintassi diventa inevitabilmente assai difficile.

Per uscire dall’impasse, ho azzardato in classe un parallelo calcistico (avvertendo inutilmente i miei studenti che avevo ben poca voglia di essere interrotto dalle loro professioni di fede, ma pazienza).

Ho scritto alla lavagna una formazione in 4-3-3, coi loro nomi.

Mario – Marco – Francesca
Giuseppe – Antonio – Laura
Paolo – Stefania – Marta – Elena
Filippo

E quindi: se io scambio Mario, Marco e Francesca con, ad esempio Paolo Stefania e Marta, cambia qualcosa nella struttura della squadra?
No, è sempre un 4-3-3. E questo perché lo schema non è dato dalle singole persone e dai loro nomi, ma dai ruoli. E infatti lo schema, in realtà, è questo (mi si perdonino le castronerie calcistiche):

attaccante – attaccante – attaccante
ala – centrocampista – ala
difensore – difensore – difensore – difensore
portiere

Allo stesso modo, quando scrivo:

soggetto – predicato verbale – complemento

faccio riferimento a ruoli (“soggetto”: governare il verbo; “predicato verbale”: offrire informazioni su tempo, diatesi, persona, ecc.), non a “cose”.

Il passo successivo è stato dire che ogni parola poi è più o meno adatta a prendere certe funzioni. Il soggetto deve governare il verbo dandogli la persona e talora il genere… può essere ricoperto questo ruolo una parola invariabile come un avverbio o una preposizione? Ovviamente no: a fare il soggetto ci vuole un sostantivo o un pronome…o al limite si può adattare un aggettivo. Ma di certo non puoi dire “il certamente ordina una pizza”, usando un avverbio nel ruolo di soggetto. Né puoi usare, in italiano, un sostantivo come verbo: “Maria casa la spesa”.

Se si capisce questo passaggio, diventa anche chiaro come mai in italiano abbiamo parole di tipo diverso, ma che di fatto hanno lo stesso significato: “corsa” e “correre” sono due diverse parole che indicano la stessa azione, ovvero hanno lo stesso significato, ma l’una parola deve essere usata come soggetto o come complemento (legata alle preposizioni), mentre l’altra si deve disporre a fare da baricentro della frase, come predicato verbale.

Come si sarà capito, questo è un modo come un altro di introdurre una maniera più corretta, semplice e scientifica di descrivere la lingua italiana, che di solito definiamo grammatica valenziale. Ma quale che sia l’approccio scelto, l’importante è che i ragazzi imparino a vedere la grammatica e a ragionarci. E questo non tanto perché questo li aiuterebbe a scrivere meglio (non è così!), ma perché è essenziale che nel curriculum di un’istruzione obbligatoria ci sia una appropriata conoscenza di quello strumento cognitivo che più profondamente definisce l’essere umano in quanto tale: il linguaggio.

Vedremo come andrà…

Libri di testo: perché non aiutano a pensare?

in Letture in classe/Scuola by
Francesco Rocchi spiega perché, a suo parere, i libri di testo eliminano ogni ruolo attivo da parte degli studenti che non sia “ricordare e ripetere” (e fornisce qualche strategia alternativa)

Tra gli insegnanti italiani e le case editrici dei libri di testo talora c’è, sia pur sotterranea, una certa tensione. Io sono tra coloro che trovano nei manuali delle mie materie (italiano e storia) uno strumento non proprio ideale e qui vorrei provare a spiegare perché.

Nonostante la manualistica italiana sia un mercato vasto e conteso da numerose case editrici, l’offerta di libro di testo non è particolarmente varia o diversificata, ragion per cui è agevole fare un discorso complessivo. La ragione di tale conformismo è semplice: tutti le case editrici, in un modo o nell’altro, tendono verso lo stesso modello, quello fissato dalle Indicazioni Nazionali per i licei. E’ vero che ci sarebbero anche le Linee Guida per tecnici e professionali, ma questo non aiuta granché: per quanto riguarda la materia su cui mi soffermerò di più in questo articolo, italiano, i libri di testo per le scuole tecniche e professionali sono semplicemente una versione più breve dei manuali liceali, alleggeriti di qualche sezione considerata troppo difficile o specialistica. La maniera pacifica con cui viene accolta questa gradazione della difficoltà è già di per sé molto irritante, perché è frutto di una implicita svalutazione delle capacità e delle aspettative degli studenti non liceali, ma forse non è il problema principale, anche considerando che, curiosamente, questa semplificazione non si estende alla storia del biennio, i cui libri, dedicati principalmente alle civiltà antiche, sono gli stessi in ogni tipo di scuola superiore, nonostante il classico e lo scientifico tradizionale abbiano un focus particolare sulla classicità che giustificherebbe ampiamente una differenziazione

Cos’è dunque che non mi piace dei libri di testo? In sostanza, potrei dire la loro monumentale ponderosità, ma non è tanto la semplice voluminosità ad essere un problema, quanto le scelte di fondo che hanno portato ad una tale esplosione di carta (e di megabite, data la presenza obbligatoria di libri digitali). Il problema è l’affastellarsi di capitoli, paragrafi, sezioni, specchietti, note, digressioni al fine di soddisfare ad abundantiam le indicazioni ministeriali.

Si potrebbe pensare che avere così tanta grazia di Dio non possa che essere positivo (meglio abbondare, si dirà), ma in realtà a me non sembra proprio così. Al di là del peso e del costo di questi libri, che incidono profondamente tanto sui portafogli dei genitori quanto sulle spalle dei figli, i libri di testo nascondono dietro questo rutilare di materiali sempre lo stesso approccio didattico: introduzione ad un’epoca, introduzione ai singoli autori, (presentati sempre con lo schema “vita ed opere”) e infine i brani antologici, corredati di introduzione, commento, parafrasi, note, mappe, riassunti, schemi ed esercizi.

Se ne ricava talora l’impressione di un libro per autodidatti: tutto è spiegato più volte, ogni difficoltà è risolta con una nota esplicativa e nessun brano è privo dell’indicazione di come vada letto e considerato (quando non viene direttamente proposto in una parafrasi modernizzata senza l’originale antico). In più, le teorie critico-letterarie sono prese con grandissima serietà ed esposte come dati di fatto: Leopardi ha avuto tre fasi di pessimismo, il Seicento è un’epoca di decadenza, le varie correnti letterarie sono presentate in maniera così netta e precisa con la loro schiera di autori che si rischia di scambiarle per ordini professionali.

In realtà, questo non è nemmeno un approccio per autodidatti: è un approccio da omogeneizzato, da cui è escisso ogni ruolo attivo da parte degli studenti che non sia “ricordare e ripetere”. Di nuovo, c’è una sfiducia di fondo nelle capacità e nelle competenze degli studenti: ogni brano deve arrivare agli studenti mediato da quel gigantesco apparato di cui dicevamo, al fine presumo di esorcizzare la possibilità -evidentemente catastrofica- che uno studente possa avere un dubbio un incertezza, e che se la risolva da sé.

Un simile setting però non si limita a forzare in uno schema prefissato soltanto gli studenti: coinvolge anche il docente. Questi sceglierà dal libro i materiali che preferisce (dato che sarebbe materialmente impossibile “fare tutto il libro”), ma fatta questa selezione quel che ci si aspetta da lui è semplicemente che in classe spieghi quel che sul libro c’è già, ma potrebbe ancora presentare qualche difficoltà agli studenti.

In una tale situazione gli svantaggi sono due: il primo è che gli studenti sviluppano nei confronti del libro un atteggiamento fideistico. Il libro è il Verbo, il docente è ancillare. Se trovo questa cosa insopportabile non è soltanto per orgoglio personale, ma perché una maniera di ragionare così pedestre la si vorrebbe sradicare ogni volta che si presenti, non fomentarla. L’altra è che ogni volta che il docente vuole fare qualcosa di autonomo, la prima cosa da fare è, molto spesso, proprio togliere di mezzo il libro di testo.

Per spiegare questo paradosso, vorrei portare ad esempio una tecnica didattica che impiego con profitto ed è giocoforza alternativa al libro di testo.

Molto spesso porto in classe brani (scelti con estrema cura) di cui non indico l’autore, o il genere di appartenenza: sono gli studenti che devono capirlo. Se fornisco delle note esplicative, è per passaggi realmente oscuri (su cui ho magari faticato io stesso) o per parole davvero desuete. Lo sforzo di capire il testo da sé e formulare delle ipotesi (giuste o sbagliate interessa relativamente poco) è molto formativo e motivante, ma è un’attività che non si può in alcun modo svolgere su libri strutturati nel modo che dicevamo prima.

Non solo: poiché trovo importante fornire una periodizzazione storica dei testi che leggiamo e ci tengo molto che l’impalcatura cronologica sia ben interiorizzata, questo lavoro di lettura “anonima” dei testi spesso lo faccio portando in classe più testi di epoche diverse, anche lontane tra di loro. L’idea è che che un’analisi contrastiva possa far emergere i caratteri salienti di ogni epoca in maniera vivida e facile da interiorizzare (senza le indebite semplificazioni che nascono nel momento in cui il focus dell’attenzione non è più sui testi ma solo su un apparato fine a sé stesso), ma è impossibile muoversi in tal senso se i testi tocca recuperarli su tre o quattro volumi diversi, che spesso gli studenti ancora non possiedono.

Eppure non è che io sia ostile al sostegno, talora molto comodo, di un manuale preconfezionato. Semplicemente, mi servirebbe un manuale adatto allo scopo: agile, con poche ma chiare definizioni, una buona periodizzazione, un ricco glossario (n sostituzione delle note a pié di pagina), pagine di critica “vera”, di alto livello, e soprattutto una selezione di testi che punti alla sintesi, non all’enciclopedismo.

Non è un desiderio che credo si realizzerà molto presto: un simile manuale metterebbe in difficoltà le case editrici, timorose di perdere quote di mercato, e forse non piacerebbe nemmeno a molti docenti che tutto sommato trovano agevole affidarsi al libro di testo senza avventurarsi molto al di là di esso.

Però, vivaddio, nulla ancora mi impedisce di fare come mi pare, nelle mie classi.

Credits foto: particolare da https://photogrist.com/street-george-natsioulis/

Supplenze tra burocrazia e didattica: proposte operative

in Scuola by
Analisi e suggerimenti di Francesco Rocchi sulla questione delle assenze dei docenti. Possono, i colleghi, iniziare ad usare le ore di supplenza in modo efficace?

Come Paolo Fasce, anche io ho letto l’articolo di Susanna Turco per l’Espresso dedicato all’esperienza di rientro nella scuola italiana di Ottavia Nicolini, precipitata dalla Germania sul cosiddetto “potenziamento”
in una scuola superiore della periferia di Roma. Nonostante certe sbavature un po’ “pulp” da parte della giornalista, l’articolo è assai accurato.
Le questioni che l’articolo affronta sono sostanzialmente due: quella dello “status” e delle attività dei docenti “non di materia”, come i potenziatori e gli insegnanti di sostegno, e quella delle supplenze. Paolo Fasce ha già approfondito la prima e io concordo quasi del tutto con lui.

Per quanto riguarda la seconda questione, è bene dire chiaramente che nonostante la scuola italiana abbia un problema assai serio con le supplenze (da chiunque siano svolte), noi generalmente lo minimizziamo considerandolo soltanto dal punto di vista della gestione burocratica dell’orario scolastico, o al limite della sorveglianza da garantire. Una questione più sindacale che didattica, si direbbe.Ed è su questo che vorrei soffermarmi. Le ragioni per cui le ore di supplenza finiscono per essere uno spreco di tempo sono più di una.

La prima e più banale è che in una scuola italiana i docenti lavorano da soli. Nel momento in cui un professore risulta assente, quindi, nessuno sa cosa intenda fare nelle classi che ha lasciato scoperte. Ovviamente ci sono gli studenti e il registro di classe, ma da queste fonti ci si possono aspettare solo risposte estremamente vaghe, in primo luogo perché non è detto che un docente comunichi ai suoi studenti l’argomento delle lezioni future e in secondo perché il registro riporta quanto è stato già fatto, non quel che c’è da fare.

Una seconda ragione è che il supplente molto spesso viene nominato con pochissimo anticipo, quasi sempre il giorno stesso, e questo rende materialmente impossibile prepararsi qualcosa da fare in una classe sconosciuta. E bisogna aggiungere che nella nomina dei supplenti per supplenze occasionali non si ha quasi mai cura di mandare in classe un professore della stessa materia dell’assente. Non è per trascuratezza o disinteresse, ma per mancanza di alternative e, fondamentalmente, di soldi.

In altre parole, le supplenze sono gestite con tale pressopochismo che pare quasi sia la scuola stessa a suggerire agli studenti che quello delle supplenze è tempo perso. E gli studenti non si fanno certo pregare: ogni supplenza è un terno al lotto per cui festeggiare rumorosamente. Non di rado mi è capitato di dover ricordare a classe festanti che gioire per l’assenza di un docente significa di fatto gioire della sua malattia, ma tant’è.

Non è solo che la vita scolastica italiana talvolta è così noiosa, piatta e confusa che può essere considerato sano volerne essere talora dispensati, è anche che per come è organizzata la nostra didattica, fare di meno e restare inerti è premiante sul darsi da fare e non voler perdere neanche un’ora.

Facile capire perché: nella nostra routine, la didattica altro non è che lo stratificarsi di argomenti in maniera lineare. In letteratura si studia un autore dopo l’altro, in storia un secolo dopo l’altro, in matematica un teorema dopo l’altro, ecc. ecc….man mano che si va avanti le cose d ricordare sono sempre di più, le interrogazioni diventano più difficili, le “pretese” dei docenti sempre più pressanti.

Siccome però l’obiettivo degli studenti in generale non è di voler essere quanto più esperti e preparati in ogni materia, ma soltanto prendere un buon voto o perlomeno la sufficienza, è chiaro che diminuire il carico di lavoro rende la vita più facile a tutti. E’ una distorsione plateale del senso della didattica e dello studio, ma nella scuola italiana questo approccio rappresenta la normalità, il senso comune. La plastica dimostrazione di quanto dico la si riscontra in quelle serrate contrattazioni a cui gli studenti costringono i docenti per evitare di dover portare alle interrogazioni troppi argomenti “ormai passati” (la cosiddetta “ripetizione”).

Non se ne esce con qualche predica o con le buone intenzioni. Se ne esce strutturando diversamente la didattica della scuola, a tutti i livelli.

Un buon punto di partenza sarebbe quello di modificare sostanzialmente la valutazione, in modo da renderla il volano della didattica. Come? Un’idea che caldeggio da tempo è quella di eliminare l’abborracciata valutazione sommativa in itinere attuale e di sostituirla con un sistema di esami annuali o al limite semestrali, il cui programma viene stabilito a monte dalla scuola stessa e comunicato agli studenti all’inizio dell’anno.

Oggi gli studenti sanno che, tra interrogazioni e compiti, devono racimolare un tot numero di voti durante l’anno scolastico, senza preoccuparsi di sapere se hanno lavorato tanto o poco o se hanno ancora lacune. L’importante è che le caselline dei voti siano state riempite sul registro e che la media sia soddisfacente. Una volta ottenuto tutto questo, si possono tirare i remi in barca. Non importa se si è durevolmente imparato qualcosa o l’essersi messi in discussione: tutto è secondario rispetto alla cabala delle medie e dei voti.

In un sistema con un esame finale annuale e con un programma chiaro fin dall’inizio, invece, si è costretti a non cercare scuse: la promozione uno se la guadagna soltanto se ha lavorato bene per tutto un anno e ha fatto proprio i fondamentali di ogni materia, in modo da passare l’esame conclusivo (ovviamente nulla impedisce che durante l’anno si facciano esercitazioni, beninteso).

Se lo studente in tal modo è responsabilizzato, allora lo è anche la scuola, che è chiamata a costruire il suo curriculum, implementarne la realizzazione ed eliminare tutti gli ostacoli (tra cui quello delle assenze dei
docenti). E un tal compito è realizzabile soltanto con i docenti che lavorano in team su basi comuni, cosa che ha tantissimi vantaggi, tra cui quello di potersi sostituire gli uni con gli altri, all’occorrenza. Non è una cosa cui siamo abituati, ma non è nemmeno un progetto poi tanto astruso. Non servirebbe molto, giusto dei docenti entusiasti e motivati…

Storia e italiano nel biennio: una proposta di lavoro sulle competenze

in Attività di classe/Storia e Filosofia by
competenze erfurt
Con il rapporto Invalsi il problema delle competenze linguistiche degli studenti italiani è tornato alla ribalta. Ecco le strategie di Francesco Rocchi, docente di storia e italiano

A seguito del rapporto INVALSI 2019, il problema delle competenze linguistiche degli studenti italiani è tornato alla ribalta prepotentemente. Con questo articolo vorrei parlare di come provo ad affrontare la questione, focalizzando soprattutto sulla storia del biennio, ma in stretta connessione con l’italiano.

Il primo problema è la difficoltà di comprensione del libro di testo da parte degli studenti. I libri di testo italiani non si segnalano per chiarezza e trasparenza, ma i miei studenti molto spesso hanno difficoltà con paragrafi di cui, all’inizio della mia carriera, davo per scontata la comprensibilità. Me ne sono accorto anni fa quasi casualmente, durante un’interrogazione. Si parlava dei comuni italiani nel medioevo, e quasi nessuno sapeva dirmi che cosa fossero, nonostante le pagine del libro che avevo assegnato (e precedentemente spiegato!). Temendo che i miei studenti fossero un po’ furbetti, volli metterli alla prova: “Benissimo, allora, prendiamo il paragrafo, ce lo leggiamo riga per riga e vediamo cosa non si capisce”. Scoprii allora che anche parole di uso comune non erano loro note, e che molti elementi di cultura generale per me banali (e dati per certi nei miei studenti) non erano affatti tali.

Da allora ho cominciato a far leggere il libro di testo in classe (ognuno per conto suo, silenziosamente, al massimo a gruppi di due), a riassumerlo e discuterlo in classe, concentrandoci su tutti i passaggi poco comprensibili o concettualmente difficili.

Do qualche minuto per leggere, verifico che la lettura sia avvenuta, dopodiché i ragazzi mi fanno i loro riassunti, oppure esprimono le loro perplessità. È un sistema che non ho più abbandonato e che sto ancora cercando di affinare: con riassunti ora scritti, ora orali, o con altri lavori di varia natura. È così che ho cominciato ad avere un quadro migliore delle lacune e delle difficoltà dei miei studenti. E quel che è emerso da alcune classi è un quadro purtroppo desolante, che mi sentirei di riassumere così: ci sono studenti che possiedono un immaginario personale poverissimo. Per immaginario intendo quell’insieme strutturato di concetti, immagini e soprattutto storie che non solo costituisce il nostro bagaglio culturale “di base”, ma funge anche da “telaio mentale” intorno al quale disporre ordinatamente e comprensibilmente ogni nuova cognizione.

Nello studio di Carlo Magno o della poesia provenzale, ad esempio, è tutto più facile se in testa si ha l’immagine di un cavaliere e di una damigella: gli eventi storici e le poesie non ci sembreranno del tutto alieni, e avremo una base per affrontare quel che è davvero nuovo ed insolito.
Laddove manchi un immaginario, e quindi la possibilità di confrontare i nuovi stimoli (nuove storie, nuove immagini, nuovi concetti) con il proprio patrimonio culturale, gli studenti rimangono disorientati: di una poesia non sanno dire se gli piace, o cosa gli piace; di un testo letterario non colgono il tono o i sottintesi; di una storia non sanno dire se è verosimile o irrealistica, perché fa riferimento a cose talmente esotiche e così avvolte nelle tenebre che anche un ippogrifo potrebbe non essere una cosa fantastica: magari da qualche parte qualcosa del genere esiste, come possono escluderlo, loro? È un’iperbole, ma nemmeno troppo.

Per tentare di ovviare a tutto questo ho fatto un uso massiccio del supporto multimediale: almeno un’ora alla settimana delle solite sei a mia disposizione nel biennio l’ho dedicata a vedere film, serie tv, documentari (possibilmente con taglio narrativo) e qualsiasi altra cosa potesse sia essere comprensibile agli studenti, sia generare in loro delle reazioni emotive. In altre parole ho cercato di veicolar loro delle informazioni di base attraverso dei canali che potessero arrivargli per davvero, in maniera semplice e allo stesso tempo incisiva. E da questo zoccolo così banalmente acquisito, muovere oltre su un piano più approfondito. Questo approccio l’ho usato principalmente in storia, agganciandovi però italiano (che a questo lavoro multimediale ha “offerto” molte ore), nei modi che vado a spiegare, parlando della didattica di storia svolta in una seconda.

La prima parte del lavoro, all’inizio dell’anno, l’ho dedicata a costruire una classica linea del tempo. Ad ogni epoca abbiamo poi assegnato una descrizione schematica rielaborando sintesi, riassunti o specifici paragrafi dal libro di testo (che ho fatto consultare autonomamente agli studenti, senza dirgli dove cercare).

Più avanti con il lavoro questo schema lo abbiamo ripreso aggiungendo nuove date e approfondendolo (ad esempio distinguendo tra un’alta e bassa Repubblica, o tra vari momenti del Principato e dell’alto medioevo), ma intanto ci è riuscito utile come base anche così. Per rinforzarlo e per renderlo duraturo, oltre ad insistere spesso sulla sua memorizzazione, ho cominciato ad usare i materiali multimediali di cui sopra. Non è stato facile trovare materiali che considerassi del tutto adeguati, ma alla fine ho messo insieme quanto segue:

L’Impero Romano, docu-drama di Netflix su Cesare.
Morte ai confini dell’Impero, documentario National Geographic di “archeologia forense”.
The Last Kingdom, serie Netflix storicamente accurata sull’Inghilterra del IX sec.
La scena iniziale di battaglia de “Il gladiatore”.
Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud.
Ladyhawke di Richard Donner.
Brancaleone, di Mario Monicelli.
La civiltà araba, documentario sugli albori della civiltà islamica.

Questi  materiali ci hanno aiutato a creare quell’immaginario di cui dicevo sopra, per il quale sono risultati molto utili anche quei film che presentano elementi fantastici o sono esplicitamente parodici, ma possono offrire degli agganci interessanti. La cosa importante riguardo a questi materiali è stato che non li abbiamo visti in “ordine cronologico”, ma quasi “alla rinfusa”, privilegiando accostamenti in chiave contrastiva. Abbiamo ad esempio confrontato le scene di battaglia de “Il gladiatore” con quelle medievali di “The Last Kingdom”, oppure gli elementi di cultura materiale dell’una o dell’altra epoca (civiltà urbana antica contro civiltà rurale medievale; apparato burocratico complesso contro relazioni personali e di parentela nel medioevo, ecc). In particolare, questi materiali erano intenzionalmente “scompagnati” dall’epoca che nel frattempo studiavamo dal libro o da altre fonti nelle ore di attività “non-multimediali”.

Il fatto di andare avanti o indietro nel tempo e lo iato con le epoche altrimenti studiate ci hanno permesso, nonostante qualche difficoltà iniziale, di interiorizzare e arricchire la linea temporale complessiva, di cui nessuna parte rimaneva trascurata troppo a lungo. E abbiamo evitato quel che spesso capita con lo studio sistematico e ordinato del libro: l’errata identificazione del trascorrere del tempo con il procedere del libro (per cui, classicamente, la fondazione di Roma viene dopo Alessandro Magno, visto che nel libro è in coda). Un’ulteriore rielaborazione del lessico e delle capacità di rielaborazione sono venute dal fatto che tutti i materiali narrativi li abbiamo analizzati anche dal punto di vista di italiano, con commenti e recensioni dei film visti che hanno costituito altrettanti temi o esercitazioni.

Parallelamente al lavoro con i materiali multimediali, abbiamo svolto anche un attento lavoro sulle fonti storiche. Periodicamente ho sottoposto ai miei studenti documenti di varie epoche, senza però informazioni introduttive e coi nomi ridotti a sigle. Il compito era di leggere attentamente i documenti e di tentare di collocarli in una delle epoche della nostra linea temporale. In tal modo ho dato loro da leggere brani di autori classici e medievali che esprimessero caratteristiche “tipiche” dell’epoca cui appartenevano (e che gli studenti dovevano cogliere come “indizi”).

La valutazione in queste attività si è basata su quanto articolatamente gli studenti sapessero illustrare la loro ipotesi (di cui mi interessava relativamente poco che fosse giusta o sbagliata): questo li ha “costretti” a leggere il testo con attenzione e richiamare in maniera analitica e consapevole i concetti e le nozioni studiate.

Un brano assegnato era ad esempio l’accessione al trono di Tiberio per come descritta da Tacito nel primo libro degli Annales: l’importanza dei militari coinvolti ad ogni livello, l’ipocrita e un po’ paurosa circospezione di Tiberio, i falsi attestati di rispetto offerti al Senato portavano a pensare che si fosse nel pieno di quel Principato ipocrita che manteneva vive le apparenze della Repubblica (ripeto che i nomi di persona li ho “censurati”). Dettaglio molto importante: il non conoscere ex-ante l’epoca di riferimento ha fatto sì che alla memoria venisse richiamata e discussa non solo l’epoca “giusta”, ma anche altre possibili “candidate”, che in tal modo risultavano riprese, approfondite, soppesate e confrontate tra loro.

Anche questo tipo di lavoro, esattamente come quello sui materiali multimediali, si presta ad incrociare storia e italiano: uno stesso testo, se letterario, può essere un documento storico e un brano da commentare in chiave letteraria: l’interdisciplinarietà è assicurata, e in maniera non esteriore o forzata. Un’ulteriore -ultima- attività di approfondimento è stata quella di prendere un determinato concetto o dettaglio e vederne l’evoluzione nel corso del tempo (anche questa attività aveva la forma di un “esercitazione”). Come cambia l’esercito nel corso della storia romana? Come cambia il ruolo del Senato? E il concetto di cittadinanza?

Queste esercitazioni venivano svolte potendo utilizzare tutti i materiali usati, gli appunti, i libri e pure internet: lo specifico di questo lavoro è nella manipolazione critica dei materiali e dell’apprendimento che ne consegue, non nel riproporre cognizioni studiate “a monte”.
Il lavoro è stato grosso modo questo. Il bilancio che ne faccio è parzialmente positivo. Le potenzialità di questo approccio mi sembrano molto grandi e credo che i miei studenti ne abbiano tratto giovamento, ma perché sia fruttuoso è necessario abituare i ragazzi a lavorarci. In classi poco motivate questo non è facile. Un lavoro così articolato implica anche un buon livello di disciplina e di concentrazione, che l’insegnante deve curare con particolare attenzione. In particolare, i ragazzi devono abituarsi all’idea che il lavoro multimediale non è il momento del “vabbé, ora ci riposiamo”: bisogna prendere appunti mentre si guardano i materiali e prestare attenzione ai dettagli.
Idealmente, credo, un tale lavoro dovrebbe cominciare alle medie, se non alle elementari, e proseguire senza fratture fino alle superiori. Però qui non intendo discutere di riforma dei cicli, che pure auspico. Mi limito a sperare di aver offerto qualche spunto utile.

Quanto è classista la scuola italiana? C’è davvero libertà di scelta?

in Scuola by
Da una relazione del Miur sugli studenti con disabilità una riflessione di Francesco Rocchi: nessuno avrebbe oggi il coraggio di sostenere che la scuola non debba essere aperta a tutti o che l’istruzione non debba essere universale e gratuita, ma la forma mentis non è cambiata.

Lo scorso maggio il MIUR ha pubblicato una importante relazione sugli studenti con disabilità nella scuola italiana, con una ricca serie di dati statistici. Tra le varie tavole, ce n’è una  che illustra in maniera assai eloquente un problema che a rigor di logica non dovrebbe essere legato al classismo scolastico, ma nei fatti lo è, e assai fortemente: la distribuzione degli studenti disabili scuola secondaria superiore italiana.
La tavola è la seguente:

Si confronti la percentuale di studenti disabili in istituti professionali (evidenziato in giallo) con il dato complessivo della scuola italiana e poi in particolare con la percentuale dei licei. Negli istituti professionali i disabili sono cinque volte quelli nei licei. Se andassimo ad analizzare i singoli indirizzi, probabilmente troveremmo dati ancora più divergenti tra professionali e licei classici o scientifici tradizionali.

Non può essere un caso. C’è una ragione dietro questa evidente discrepanza, che viene ben illustrata dal grafico che mette in relazione il tipo di disabilità con la scelta della scuola:

Se gli alunni con disabilità visiva vanno principalmente ai licei e quelli con disabilità uditiva o motoria si distribuiscono abbastanza uniformemente nei tre ambiti liceale, tecnico e professionale (anche se con percentuali per i professionali più alte rispetto al corrispondente dato globale di un 19.5% di studenti iscritti ad un professionale), nei professionali la percentuale di studenti con disabilità cognitive sono più della metà del totale: il 52%.

Questo dato è il la plastica rappresentazione di una concezione assai diffusa nell’istruzione e nell’opinione pubblica italiana, una concezione tanto brutale quanto semplice: sia i docenti che orientano sia le famiglie che si fanno orientare pensano che il professionale sia “la scuola degli scemi”. Ovviamente, nella categoria degli “scemi” bisogna inserire, oltre ai disabili, anche gli stranieri e i poveri, come l’anno scorso alcuni licei classici di centro-città hanno candidamente messo per  iscritto nel proprio RAV, salvo poi essere giustamente travolti dalla pubblica indignazione. Se guardassimo alla distribuzione degli studenti BES e DSA troveremmo una polarizzazione assai simile.

Non si tratta di nulla di particolarmente nuovo, come sa chiunque abbia dato anche soltanto una scorsa distratta a “Lettera a una professoressa” di don Milani. Anzi, è corretto parlare di una tenace persistenza del classismo italiano, che sopravvive ad ogni cambiamento, sia pure in forme cangianti e, se vogliamo, dissimulate.

Nessuno infatti avrebbe oggi il coraggio di sostenere che la scuola non debba essere aperta a tutti o che l’istruzione non debba essere universale e gratuita, ma la forma mentis non è cambiata (e in qualche modo convive con l’indignazione per l’esplicito classismo dei licei cosiddetti “di tradizione” di cui dicevamo prima): le scuole italiane sono incasallate in una rigida e minuta struttura gerarchica, con il liceo classico e lo scientifico tradizionale in cima ad una scala su cui poi si dispongono i licei meno nobili, i tecnici ed infine i professionali. Sotto i professionali ci sono i corso di formazione professionale, i diplomifici privati e l’abbandono scolastico.

Questa scala la conoscono bene gli studenti che, in difficoltà in qualche liceo, spesso si fanno tutta la trafila “discendente”, andando di bocciatura in bocciatura verso l’abbandono o l’iscrizione in qualche diplomificio privato. L’opinione pubblica non sembra considerare come particolarmente problematico tutto ciò. Quella forma mentis di cui si diceva prima spiega e giustifica tutto questo con la retorica della selettività: alcune scuole sono molto buone e ti offrono un’ottima formazione, ma bisogna meritarsele, un po’ come una rigorosa accademia militare o un’università della Ivy League. Se non sei capace di restare in una scuola del genere, qualche altra scuola più caritatevole si prenderà cura di te abbassando le aspettative e gli standard educativi.

E’ la prospettiva di chi considera l’istruzione un privilegio e pensa che alcune scuole, grazie all’intrinseca superiorità delle materie che insegnano, siano qualitativamente altre rispetto a tutto il resto. Il latino e il greco, in particolare, sembrerebbero operare come potenti incantesimi di tipo esoterico: offrono grandi poteri, ma non possono essere offerti che ad una ristretta cerchia di studenti selezionati. E’ una sorta di strana equazione: quanto più una materia è formativa, tanto più sembra essere esclusiva.

A ragionarci anche soltanto per un attimo ci si rende conto che tutto questo non sta in piedi: se certe materie fossero davvero così formative dovrebbero essere impartite a tutti, non ad una cerchia selezionata. In più, l’eccellenza del liceo classico non viene dalla sua (asfittica) didattica delle lingue morte, ma dal fatto di essere “di tradizione” e di raccogliere gli studenti economicamente e socialmente più avvantaggiati (quei licei dello scandalo lo dicevano pure a chiare lettere, d’altronde); i problemi dei professionali, specularmente, vengono dal fatto di essere oggetto di una selezione sociale inversa.

La cosa più inaccettabile di tutte, però, è l’idea che possa essere considerato normale e non preoccupante il fornire a circa metà della popolazione studentesca italiana, quella che si raccoglie in tecnici e professionali e anche nei licei non nobili, una istruzione esplicitamente considerata di serie B -ammesso e non concesso che gli insegnanti di tecnici e professionali offrano davvero una didattica di serie B.

E’ l’esito inevitabile di quell’approccio “para-universitario”: come non tutti possono essere dottori, non tutti possono essere buoni diplomati liceali, o diplomati e basta. “Pazienza!” sembrano dire i sostenitori della scuola tradizionale (che pure inorridirebbero all’idea di essere definiti classisti).

E invece non c’è da avere alcuna pazienza. I tradizionalisti possono rimanere concentrati quanto vogliono sul quadretto oleografico dell’istruzione italiana che loro difendono, ma chiunque sia abituato a guardare un po’ più lontano si rende perfettamente conto che il non aver dato una buona istruzione ad un giovane significa ritrovarsi nel giro di pochi anni a dover trattare con un adulto fragile e bisognoso di assistenza, invece che con un lavoratore solido ed indipendente.

Se si vuole modificare la scuola italiana, quindi, bisogna riuscire a portare il dibattito pubblico sulla necessità di ampliare l’istruzione di eccellenza fino a farla diventare universale. Bisogna trovare gli argomenti per rendere plasticamente visibile il senso e lo scopo di un’istruzione pubblica non classista che fornisca una formazione eccellente a tutti.

Non è un compito facile: il nosro gentilianesimo è ancora molto forte. E non si può nemmeno continuare a polemizzare sterilmente con i docenti di latino e di greco, anche perché il problema non sono le lingue morte che insegnano e che vale la pena di continuare ad insegnare (magari meglio), ma la retorica che le circonda.  Il giusto approccio al dibattito pubblico non è dunque lo scontro frontale con i licei di tradizione, ma con la positiva proposizione di alternative valide e universali.

I primi da convincere sono spesso gli insegnanti medesimi. Uno dei pilastri del classismo italiano è proprio l’orientamento in uscita dalle medie: i consigli orientativi sono quasi invariabilmente basati sulla tassonomia che abbiamo visto sopra, e sono spesso seguiti fiduciosamente. Nonostante gli insegnanti siano infatti spesso contestati per i voti che mettono o per le note che mettono, sull’orientamento in uscita non ci sono grossi conflitti, perché tutto sommato tanto le famiglie quanto i docenti condividono la stessa prospettiva. Allo stesso modo, nei primi anni delle superiori assistiamo ad un’ulteriore canalizzazione dovuta al fatto che fin troppi tra i docenti pensano che lasciare gli studenti più in difficoltà a scuole “facili” sia meritorio e legittimo, con il risultato di confermare agli occhi degli osservatori esterni tutti i luoghi comuni sulle scuole “facili”. E’ una dinamica profondamente ingiusta, contro cui bisogna lottare.

Questo significa impegnarsi a rinnovare la didattica e a renderla sempre più trasparente nei suoi legami con la società circostante, nonché provare a trovare quanti più agganci possibile con il mercato del lavoro e con l’università (che non può più essere lo sbocco dei soli licei nobili). Significa anche  costruire la prospettiva di un futuro diverso da quello in cui è la scuola “giusta” a definire il tuo ruolo nella società. Significa riuscire a mostrare alla società che i talenti e le possibilità per contribuire fattivamente ad una società migliore si possono esplicare in qualsiasi tipo di scuola, non solo in quelle privilegiate.

Si comincia in classe, con il lavoro di ogni giorno, parlando di didattica in ogni sede possibile, con entusiasmo e competenza. Non vedo altre strade.

Francesco Rocchi è docente di italiano e storia all’I.T.C.G. Fermi di Pontedera, fa parte del gruppo di docenti che cura il blog Condorcet. Ripensare la scuola e collabora con la rivista online iMille

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