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Corsi di formazione: obbligo, dovere o necessità (a volte disattesa)?

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Sono obbligatori per legge, ma i corsi di formazione servono? A chi servono? E soprattutto sono davvero funzionali alla didattica? Una riflessione di Valerio Camporesi

Corso di formazione è parola che suona spesso assai ostica per gli insegnanti: rimanda a obblighi imposti e a estorsioni sul filo della truffa; raramente – ma forse non così tanto – a un’esperienza positiva. Eppure non dovrebbe essere così: se il principio di una formazione costante, in itinere, vale per tutte le professioni deve valerlo a maggior ragione per quella dell’insegnante, che deve continuamente aggiornarsi anche solo per stare al passo con i cambiamenti – anche radicali – che la società porta dentro il mondo della scuola.
A voler entrare nel dettaglio il discorso si fa complesso.

In primo luogo perché coinvolge in modo diverso due  tipologie di utenti: gli insegnanti precari e quelli di ruolo. I primi sono spesso ‘costretti’ a iscriversi a corsi di formazione (più o meno seri) al fine di accumulare quel punteggio necessario per stare al passo degli altri nelle graduatorie ed essere – forse, un giorno – assunti in pianta stabile dallo Stato. I corsi offerti sono assai vari, nella qualità e nei costi, ma è il principio del “Vuoi il posto? Paga” che colpisce: un meccanismo perverso, secondo alcuni un vero e proprio mercimonio assai utile ad enti più o meno qualificati per accumulare lucrosi guadagni sulle spalle di chi – spesso per molti anni – prova ad entrare nel Paradiso del corpo docente.

Se il docente precario aspirante di ruolo prova spesso la spiacevole sensazione di essere ricattato, quello stabile non si fa mancare la sua dose di brividi al sentir nominare i corsi di formazione: la legge 107 (quella della Buona scuola, per intenderci, così buona che quasi tutti gli insegnanti l’hanno rispedita al mittente in cabina elettorale) prevede infatti l’obbligatorietà della formazione per i docenti; di qui corsi di formazione approvati dai collegi dei docenti spesso assai gravosi in termini di ore (che, con l’approvazione del Collegio, diventano obbligatorie), mal vissuti e mal digeriti da quella parte del corpo docente che aveva votato in senso contrario. E non di rado, per quelle dinamiche perverse che pervadono talvolta la comunità docente, chi vota contro rischia di passare per contrastivo (questa la ormai mitologica definizione messa a verbale a suo tempo dall’Associazione presidi) mentre chi promuove corsi assai impegnativi lo fa forse anche con la speranza di ingraziarsi i vertici scolastici, cosa non di poco conto come chi sa chi lavora a scuola.

Non si può fare meno di osservare che la legge 107 ha dato ulteriore e nuova linfa a quegli enti che, sui corsi, già facevano notevoli guadagni, offrendo loro nuovi e ben remunerati spazi (sono le scuole che pagano, con i loro – nostri – soldi); e talvolta torna anche qui il sospetto di un mercimonio più o meno velato, specie quando si ascolta la perorazione di un corso tenuto, guarda caso, da persona o ente assai vicina al proponente.

Materia difficile, non priva di ambiguità, che anche grazie all’impegno dei sindacati, è stata almeno in parte chiarita e forse migliorata: dalla raccomandazione di stabilire nel Collegio il numero di ore di aggiornamento da svolgere (con il replicarsi dello scontro tra contrastivi o supposti tali e aspiranti alle grazie dei vertici, impegnati i primi a stare bassi col numero di ore e i primi a volare alti) alla possibilità di svolgere l’attività di formazione anche tra docenti. Materia che, al netto degli aspetti problematici – e a volte anche tristi – sarebbe bello fosse ricondotta alla sua originaria verità: la necessità di aggiornarsi.

Bisogno che almeno una buona parte degli insegnanti avverte (quanti docenti sentono il bisogno di conoscere o approfondire la psicologia dell’età evolutiva, per esempio?) ma che vorrebbe, forse, fosse speso secondo altre modalità, a partire dalla possibilità di richiedere e svolgere quei corsi che si ritengono veramente utili alla propria attività didattica senza essere vincolati da scelte maggioritarie che in questo possono risultare inidonee o addirittura pesanti; sarebbe auspicabile, inoltre, che i corsi di formazione fossero caratterizzati da quella sinteticità che a volte manca e che a volte sembra mancare per quell’esigenza di lucro di cui sopra (più ore, più soldi): se il formatore è efficace, può insegnare molte cose anche in sei, otto o dieci ore, e un insegnante che impara e mette in pratica anche solo una cosa nuova all’anno avrà già migliorato di molto la propria capacità di fare quello che resta un bellissimo mestiere.

Infine, la formazione è tema molto più vasto e complesso rispetto ai corsi: un insegnante che legge, studia, approfondisce (e magari, perché no, viaggia) non è forse già un insegnante che si aggiorna (davvero)?

Nato a Firenze il 25 febbraio del 1970, si è laureato in Lettere con indirizzo storico all'università di Firenze nel 1998. Dal 2001 insegna Lettere alla Scuola Secondaria di primo grado. Nel dicembre del 2014 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'amore al tempo della rete" (Carmignani Ed.). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all'interno di raccolte antologiche; un suo articolo è apparso sulla "Antologia" del Lab. Vieusseux nel 2016.

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