La scuola che manca

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Insegnanti, alunni, genitori: insieme a Valerio Camporesi, parliamo di una scuola che manca come luogo di dialogo e confronto.

Cos’è successo nella scuola italiana all’indomani della chiusura per il Covid-19? Si susseguono sulla stampa e in rete racconti diversi, ma forse con alcuni tratti in comune, il primo dei quali è il disorientamento. La scuola non era preparata a una simile evenienza, e sconta con l’ovvia difficoltà la situazione attuale: sono le problematicità ben note (alunni che non dispongono degli strumenti per la didattica a distanza, collegamenti che non sempre funzionano), in cima alle quali metterei la mancanza del rapporto diretto.

È possibile fare lezione senza guardare in faccia gli alunni, rinunciando a quelle dinamiche relazionali tra docenti e discenti costruite nel tempo e, spesso, con fatica? Se, come molti sostengono, il lavoro di un insegnante è anche attoriale (nel mio caso, insegno Storia ricorrendo spesso a piccole rappresentazioni sceniche in classe), può svolgersi a distanza? Verrebbe da dire di no, che il massimo che si potrà fare sarà tenere in qualche modo il filo di una comunicazione e, solo in minima parte, di una didattica. Forse, alla fine, conterà più di tutto non aver fatto sentire soli gli alunni, aver creato uno spazio di dialogo e di confronto in mezzo all’isolamento forzato che stiamo vivendo.

Eppure, nonostante i limiti e le difficoltà evidenti fin dall’inizio, nel corpo docente si è manifestata – non in tutti, non sempre – un’ansia da prestazione talvolta strisciante, talvolta debordante: nelle chat tra docenti era una gara a voler fare, un mettersi in prima fila a mostrare che si stava lavorando, che si era pronti, anche laddove i dubbi e il disorientamento apparivano più che legittimi.

Un’ansia che forse viene da lontano, da quella delegittimazione sociale profonda, instillata da decenni di narrazioni qualunquistiche veicolate anche da ministri (il noto Brunetta, secondo il quale gli insegnanti guadagnavano anche troppo, visto che “lavorano mezza giornata”), da percezioni svalutative di una professione difficile e nella quale il tempo passato a scuola costituisce di norma la metà di quello lavorativo effettivo (tra lezioni da preparare, compiti da correggere e riunioni). Una percezione e una narrazione che, tristemente, rischiano oggi di rafforzarsi, laddove gli eroi (giustamente) conclamati sono altri, lasciando nell’ombra tutti gli altri lavoratori che, pure, stanno continuando a lavorare (come gli insegnanti).

Anche le prime parole del ministro sono apparse significative: un voler mettere le mani avanti, fin da subito, un dire che “la scuola sta lavorando, è tutto come prima”, come se la scuola avesse una tara da correggere, una colpa da espiare, qualcosa che non permettesse di dire fin da subito: no, non sta andando come prima, la situazione è complicata.

Il rischio è che questo scenario si ripeta, magari rafforzato, quando si faranno i conti di questa crisi e si vedrà che, a fianco dei tanti caduti in miseria, ci sono i “privilegiati”, quelli che – come gli insegnanti – godono di uno stipendio fisso visto ormai come un privilegio e non, come dovrebbe essere, un diritto. Lo stipendio più basso d’Europa, eroso da tagli decennali, palesemente incongruo, ma tant’è.

La scuola però è fatta soprattutto dagli studenti, allora è lecito chiedersi: che tracce lascerà in loro quest’evento che qualcuno ha già definito periodizzante, tale da incidere profondamente nei modi di vivere e di pensare? Anche qui si sono susseguiti analisi e responsi, alcuni ai limiti della profezia. Non avendo doti profetiche, mi limito a dire: non so.

Mi preoccupa però l’effetto che il distanziamento sociale provoca negli studenti: che effetto avrà la rinuncia forzata a quel luogo di socialità e di incontro che è il mondo della scuola, con tutti i suoi contrasti e le sue dinamiche a volte anche conflittuali (tra alunni e insegnanti, tra alunni stessi)? Mai come adesso ci si accorge di quanto la scuola non sia solamente un’istituzione dispensatrice di nozioni, bensì in primo luogo un luogo di vita indispensabile, e la sua assenza rischierà di pesare. Nel momento in cui la scuola tornerà a vivere si troverà di fronte – forse – alunni ancora più disorientati, deprivati di quelle funzioni emotive che solo la relazione con gli altri può dare.

L’ultima riflessione riguarda la scuola che manca ai genitori, agli insegnanti, ma anche agli studenti: è forse questa la base da cui ripartire per darle più valore e legittimazione, per farla ricominciare con qualche stereotipo in meno, in primo luogo quello sulla scuola brutta e noiosa per definizione. Se fosse così brutta e noiosa, non mancherebbe così tanto!

Nato a Firenze il 25 febbraio del 1970, si è laureato in Lettere con indirizzo storico all'università di Firenze nel 1998. Dal 2001 insegna Lettere alla Scuola Secondaria di primo grado. Nel dicembre del 2014 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'amore al tempo della rete" (Carmignani Ed.). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all'interno di raccolte antologiche; un suo articolo è apparso sulla "Antologia" del Lab. Vieusseux nel 2016.

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