Riflessioni di Valerio Camporesi su quanto emerso dall’indagine della Fondazione Agnelli sulla scuola media.
Ha suscitato una certa eco l’indagine sulla scuola Secondaria di primo grado (evidentemente continuare a chiamarla scuola media non era abbastanza à la page) recentemente pubblicata a cura della fondazione Agnelli: ne emerge un quadro pressoché disastroso, caratterizzato dall’ulteriore perdita di abilità e conoscenze, anche in relazione agli standard europei e dall’accentuarsi di quei divari sociali e regionali già fotografati dalla precedente indagine del 2011.
La scuola media (io continuo a chiamarla così) come un vero e proprio buco nero in cui improvvisamente sembrano piombare gli alunni che, fino alle elementari (Primaria, secondo il nuovo corso terminologico), registrano livelli di apprendimento, almeno in matematica, al di sopra degli standard internazionali.
Sarà veramente così, e se sì, perché?
Sia concesso, come premessa, osservare come ad occuparsi di scuola sia un economista, Andrea Gavosto, fatto assai indicativo di come la scuola sia intesa oggi soprattutto in relazione all’economia e finalizzata ad essa, tanto da assumerne anche il vocabolario (standard, target, ecc.): dobbiamo per forza rassegnarci a questa visione per lo meno unilaterale o è forse possibile valorizzare l’aspetto dell’istruzione come scienza umana in primo luogo e poi, anche e forse, economica?
Venendo ai contenuti dell’analisi, appare evidente che l’esplodere dei divari e delle difficoltà (e anche dei crolli) negli apprendimenti si spiega anche e forse soprattutto col passaggio, a volte un po’ brutale, da una scuola – come quella Primaria – in cui l’alunno viene generalmente più protetto (basti pensare all’assenza delle bocciature) e lo stesso livello delle richieste non fa emergere gli eventuali deficit e lacune, che tuttavia sono già presenti (lo studio evidenzia una differenza in media di 26 punti tra uno studente figlio di laureati e uno studente i cui genitori hanno la licenza elementare).
Il passaggio alla scuola media risulta a volte brutale, si dice.
I tanti insegnanti, le pagelle a volte piene di insufficienze, le scuole non sempre accoglienti: su quest’ultimo aspetto l’analisi della Fondazione Agnelli coglie senz’altro un punto essenziale, ovvero la mancanza di un’offerta formativa puntuale in relazione al recupero scolastico, spesso demandato alla buona volontà e agli spesso esigui fondi a disposizione delle scuole.
Opera quanto mai urgente e meritoria sarebbe quella di dotare ogni scuola degli strumenti e delle modalità che rendessero il recupero un’attività garantita e obbligatoria, con – anche – allungamento del tempo scuola al pomeriggio.
Ma questo, come si sa, richiede finanziamenti, e chi amministra l’istruzione e il paese non è sembrato particolarmente disponibile ad investirle.
Non si insisterà mai abbastanza sulla cecità (anche a livello di ritorno economico, per seguire il taglio di cui si parlava) di tale atteggiamento, manifestato in passato anche con scelte didatticamente disastrose e motivate unicamente dalla necessità di apportare tagli.
Come quella di abolire le compresenze nella scuola media, ore preziosissime in cui la classe poteva essere divisa per svolgere quel lavoro a gruppi di cui la stessa Fondazione Agnelli parla come una delle risposte ad un quadro così problematico. Così come sarebbe importante investire risorse per migliorare le condizioni di lavoro degli insegnanti e il loro spazio di incontro per discutere le problematiche degli alunni e della classe, spazio che nella scuola Primaria esiste (le famose ore di Programmazione) per poi ‘magicamente’ scomparire alle medie, ridotto a fugaci incontri nel corridoio tra professori sempre di corsa.
In questo quadro problematico va aggiunta la particolare fragilità di un’età: la pre-adolescenza, che negli alunni fa spesso esplodere conflitti interiori e non solo, tali da compromettere fortemente l’apprendimento scolastico.
Anche per questo servirebbe la presenza di uno psicoterapeuta, presenza che però ci tocca solo invidiare ai paesi più avanzati e che investono assai più nella scuola, come quelli scandinavi.
Se proprio il fare non è possibile, ma solo il parlare, almeno una cosa si eviti di farla: prospettare, come apparso in un recente intervento su ‘‘La tecnica della scuola”, La crisi della scuola media e il modello tedesco), l’adozione di modelli di scuola che fin dalle medie selezionino gli alunni in base alle loro capacità e competenze, indirizzandoli verso sbocchi professionali reputati a loro adatti.
Modello tremendo, perché cristallizza e dà per definitive attitudini che a 12 o a 13 anni nessuno può ancora ben conoscere.
Ogni strada, nella vita e anche e soprattutto nella scuola, deve restare aperta, nessuna porta chiusa. Mai.