I “giorni delle memorie”: in ricordo del genicidio dei nativi americani

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Riflettiamo sui “giorni delle memorie”: per dare la stessa importanza a tutte le giornate in ricordo delle tragedie che purtroppo hanno segnato la storia.

La scuola italiana si impegna da anni (esattamente dall’anno scolastico 2000-2001, in virtù della legge n. 211 del 20 luglio 2000 promulgata in accordo con la proposta avanzata dal Parlamento europeo) a celebrare il ricordo della Shoah il giorno 27 Gennaio, data della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa.

Opera quanto mai meritoria in un mondo che tende a dimenticare in fretta anche le tragedie più efferate. Esercizio tanto più utile e doveroso nella realtà di oggi.

Sempre più orientata verso i miti del consumo e dell’apparire e nella quale riflettere e ricordare rischia di risultare ai più una banale perdita di tempo. Con il conseguente e disastroso rischio di una perdita collettiva del senso del passato.

E il genocidio dei nativi americani?

Anche quest’anno, come tutti gli altri, nell’affrontare questo tema in classe, mi è tornata in mente la stessa domanda: ”E il genocidio dei nativi americani? Come mai non c’è un giorno della memoria anche per loro?”.

Perché i libri dedicano sì e no una pagina allo sterminio di un intero popolo, la cui sola colpa è stata quella di esistere e vivere in territori che gli Americani volevano conquistare, adducendo a motivo il diritto di una specie superiore nei confronti di una inferiore, incapace di costruire ferrovie, strade, città, e di usufruire di quelle così vaste ricchezze (oro, alberi) che solo la nostra civiltà poteva far fruttare?

Perché questa disparità?

Tutti gli anni mi torna il ricordo della risposta che mi diede, circa trent’anni fa ahimè, un mio vecchio professore all’Università:

«perché i Nazisti quello sterminio l’avevano progettato. Un piano premeditato, la creazione di una vera e propria fabbrica della morte che trovò piena attuazione con la Conferenza di Wansee del 20 gennaio 1942, nella quale fu decretata la Soluzione finale».

E quella spiegazione mi sono tenuto, per tanti anni, riportandola anche agli studenti.

Però adesso – ma a dire il vero da tempo – quella spiegazione non mi convince più. Non parlo, ovviamente, della veridicità del fatto: gli Stati Uniti non progettarono a tavolino il genocidio dei Nativi americani, i Nazisti sì. Parlo della domanda successiva: e quindi?

Fatta salva la riflessione storica di cui sopra, giusta, fondata, verissima, perché si continua a considerare un genocidio meno – molto meno – genocidio di un altro?

In che misura una differenza del genere – intellettualmente ineccepibile ma umanamente irrilevante – può giustificare una valutazione così diversi nei nostri libri, nella nostra collettività, nelle nostre coscienze?

Non sarà che sotto sotto alla società occidentale autoproclamatisi libera, buona, aperta e democratica, cova una buona dose di  spirito razzista (e, va detto, profondamente ipocrita) in base al quale le memorie e le persone di cui quelle memorie parlano non sono tutte uguali in quanto lette sempre e solo da una prospettiva, la nostra?

Resta il privilegio di chi, come me, da insegnante, può esercitare il proprio lavoro nella libertà, anche di farsi e fare domanda, la possibilità di esercitare la propria riflessione critica e di stimolarla nelle coscienze degli studenti.

Affinché – forse – proprio a partire dalla scuola si possa fare un passo avanti nel riconoscimento di una vera uguaglianza, nei diritti, nella considerazione, nella memoria, tra tutti gli abitanti del pianeta terra.

Nato a Firenze il 25 febbraio del 1970, si è laureato in Lettere con indirizzo storico all'università di Firenze nel 1998. Dal 2001 insegna Lettere alla Scuola Secondaria di primo grado. Nel dicembre del 2014 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'amore al tempo della rete" (Carmignani Ed.). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all'interno di raccolte antologiche; un suo articolo è apparso sulla "Antologia" del Lab. Vieusseux nel 2016.

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