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La scuola e la competizione a tutti i costi

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La competizione tra le scuole è davvero un modo per renderle migliori? Siamo sicuri che non sia controproducente? L’analisi di Valerio Camporesi 

Cos’è una scuola oggi? A vederla nel giorno dell’open day la risposta verrebbe spontanea: un negozio. Come ogni impresa anche le singole scuole si affannano a cercare clienti, che nel loro caso si chiamano iscritti, e per farlo si sbandierano le attività pomeridiane, i corsi di recupero o di teatro, le settimane bianche, le percentuali ‘performative’ ottenute nelle ultime prove Invalsi e così via.

Gli insegnanti ricevono i futuri clienti (alias genitori) ai propri banchi con i volti sorridenti, appena un po’ tirati per la stanchezza, e fanno il possibile per convincerli. A fine giornata è tutto un guardarsi negli occhi, un dirsi “È andata bene”, uno sperare di aver fatto centro: forse i clienti non diminuiranno, anzi forse si formeranno una o due sezioni in più! L’importante, in ogni caso, è che non calino: in questo caso gli occhiuti controllori dell’Ufficio scolastico regionale interverranno prontamente a togliere una o più sezioni e qualcuno tra i colleghi dovrà cercarsi un’altra scuola. Ma la giornata è andata bene, non andrà così, si dicono salutandosi con i volti segnati dalla fatica e dalla speranza. 

Chi a suo tempo aveva ideato la legge 59 del 1997 – la famosa legge sull’Autonomia scolastica – avrà immaginato che sarebbe andata così? Legge al centro di molte discussioni e polemiche, ispirata da principi positivi (il collegamento tra scuole e territorio) assai di moda in tempi di devolution anni ’90 ma anche da contraddizioni insanabili, come l’esiguità delle risorse stanziate alle scuole al fine di rendere effettiva la loro autonomia. Che tra i suoi effetti ci sia stato il sorgere di un’affannosa competizione tra le scuole, dotate dalla legge 59 di piena autonomia giuridica e – va sottolineato – finanziaria, è da ritenersi un fatto positivo o negativo?

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Ci asteniamo dal rispondere, ma una riflessione ci sentiamo di farla: laddove negli anni passati (i formidabili anni Settanta) il mondo della scuola era percorso da principi e istanze di orientamento partecipativo che trovarono una loro almeno parziale attuazione con l’introduzione degli organi collegiali ed altre misure, negli ultimi tempi l’unità di misura che ispira le politiche scolastiche sembra più incline ad assecondare i valori della competizione: tra le scuole ma anche tra gli insegnanti, come apertamente enunciato dalla contestatissima legge sulla Buona scuola, causa non ultima della debacle governativa.

Le scelte, si sa, non sono mai neutre: ed anche quelle che valorizzano dinamiche competitive sottendono un riferimento culturale, in gran parte ascrivibile al pensiero unico neoliberista che ha fatto della competizione un valore assoluto e indiscutibile. Non sarebbe forse il caso, invece, di discuterlo? Siamo sicuri che impegnare le scuole in competizioni basate su offerte sempre più allettanti corrisponda alla vera missione di un’istituzione come quella scolastica?

Su tutti, un rischio appare evidente: che nello sforzo di accaparrarsi clienti le scuole cerchino in ogni modo di ingraziarseli con proposte e progetti dai nomi e dalle forme accattivanti ma svuotate nella sostanza di un reale significato legato all’istruzione, all’educazione e alla formazione. E, a voler continuare con i rischi, siamo sicuri che anche i criteri di valutazione adottati dalle singole scuole non si assesteranno (se non lo stanno già facendo) verso standard sempre più indulgenti in modo tale da non spaventare i clienti?

Di questi rischi si è avuta una manifestazione assai appariscente nel recente caso assurto alle prime pagine di tutti i giornali: alcuni noti licei hanno inserito nei loro annunci pubblicitari frasi assai infelici che riportavano con orgoglio come nei loro istituti la percentuale di alunni stranieri o disabili o – addirittura – in condizioni di svantaggio sociale – fosse assai ridotta, permettendo così “un corso di studi libero da ritardi, impacci”. Non ci interessa indugiare su questi casi: i presidi hanno risposto e risponderanno (anche alla ministra, assai irritata); ci interessa evidenziare che ancora una volta la logica che sembra star dietro a tali fenomeni è la stessa di prima, la necessaria assoluta indiscutibile competizione.

Proposta: e se – almeno nel mondo della scuola – quella parola provassimo ad abolirla? Davvero le scuole sarebbero peggiori senza depliant pubblicitari, open day con annesse gare di iscritti e annunci più o meno discutibili? Magari, chissà, tornerebbero in primo piano altri valori, più umani, quelli che – a dispetto di tutto – nelle scuole esistono ancora, quelli che ci fanno prendere cura dei ritardi e degli impacci.

Nato a Firenze il 25 febbraio del 1970, si è laureato in Lettere con indirizzo storico all'università di Firenze nel 1998. Dal 2001 insegna Lettere alla Scuola Secondaria di primo grado. Nel dicembre del 2014 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'amore al tempo della rete" (Carmignani Ed.). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all'interno di raccolte antologiche; un suo articolo è apparso sulla "Antologia" del Lab. Vieusseux nel 2016.

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