abbandono scolastico

Abbandono scolastico: cosa dovrebbe fare la scuola?

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I numeri legati all’abbandono scolastico sono inquietanti, nettamente superiori a quelli della media europea. La riflessione di Valerio Camporesi, insegnante di scuola media


L’abbandono scolastico è ancora oggi, a detta di molti, “il” problema della scuola italiana, effetto manifesto dei suoi mali cronici e causa a sua volta di enormi danni a livello sociale ed economico. Problema annoso, col quale si confrontò fin da subito il neonato Stato italiano a partire dalla Legge Coppino del 1877 che istituiva l’obbligatorietà dell’istruzione elementare per i primi due anni (!) ma ne demandava la realizzazione concreta ai Comuni le cui casse, specie nel Sud, erano prive delle risorse necessarie per attuarla. Sono passati quasi 150 anni ma, secondo numerose indagini, i dati continuano a essere allarmanti: ci parlano di una dispersione (ovvero quell’insieme di processi che, determinando rallentamenti, ritardi o altre interruzioni più o meno prolungate di un iter scolastico, possono portare all’abbandono) e di un abbandono nettamente superiori a quella della media europea.

Negli ultimi venti anni si sono persi per strada circa tre milioni di studenti, con punte particolarmente alte in regioni come la Sardegna (33% di abbandoni) e Campania (29%). Un vero e proprio esercito di studenti che non ha completato il ciclo di istruzione obbligatorio fino a 16 anni e quello di formazione (fino ai 18) e che pone seri interrogativi all’intero sistema scolastico nazionale. Tra i dati, particolare inquietudine genera il tasso di abbandono alle scuole medie: uno 0,8 % che significa 15.000 ragazzi che non sono riusciti a completare nemmeno il ciclo della secondaria di primo grado.

Gli effetti di abbandono e dispersione sono stati studiati e dichiarati a chiare lettere: disoccupazione assai maggiore, incidenza sulla salute e sui tassi di criminalità con conseguenti danni sociali ed economici i cui costi sono maggiori degli interventi necessari ad evitarle.

Dispersione e abbandono nettamente superiori a quella della media europea. Tra le cause la disgregazione del tessuto familiare e sociale, la perdita del senso collettivo attribuito al valore della scuola e le difficoltà – anche grosse – da parte della scuola stessa ad accogliere e integrare gli alunni “a rischio”

Ma quali sono le cause di questo fenomeno troppo spesso solamente dichiarato essere una vera e propria emergenza nazionale? È fin troppo facile, per chi lavora nel mondo della scuola, stilare un breve ma doloroso elenco: la disgregazione del tessuto familiare e sociale, la perdita del senso collettivo attribuito al valore della scuola, difficoltà – anche grosse – da parte della scuola stessa ad accogliere e integrare gli alunni ‘a rischio’.

Su quest’ultimo aspetto non c’è dubbio che si potrebbe fare di più, a partire da una seria politica di investimenti statali che desse finalmente risposte alle esigenze conclamate che vengono dal mondo della scuola: attività di recupero e laboratoriali (anche in orario pomeridiano, la famosa scuola “aperta”) in grado di affrontare le lacune nell’apprendimento e quelle – non meno gravi – relative alla sfera affettiva-comportamentale (si pensi al rilievo di un’esperienza come quella teatrale), classi con numeri più ridotti e maggiore presenza di insegnanti di sostegno ed educatori, rimodulazione delle ore di insegnamento in modo da prevedere spazi veri per la didattica differenziata, collegamento attivo con i Servizi sociali per affrontare i casi più gravi di disagio giovanile; sono solo alcune delle risposte che il mondo della scuola attende ma, per ora, senza risposte adeguate. Qualcosa si è cominciato a muovere dall’anno passato e, guarda caso, si è dovuto attendere i finanziamenti europei dei PON; ma, urge ripeterlo, è ancora troppo poco.
La scuola, sia chiaro, potrebbe fare di più, deve fare di più a prescindere dai problemi sopraindicati. Deve cercare, ad esempio, di creare un clima positivo in cui l’andare a scuola sia percepito non come una condanna ma come una opportunità: tentare di creare un aggancio con le emozioni, gli interessi, i linguaggi, i mondi degli alunni, senza il quale la scuola apparirà come un luogo vuoto, astratto. E deve cercare di far sentire a ogni studente che lui, proprio lui, è importante, e che ci si sta – con tutti i limiti degli insegnanti – prendendo cura di lui.

se si avverte che il mondo non è interessato a noi difficilmente si svilupperà interesse verso il mondo

Quella della scuola è una fase critica dell’esistenza: se si avverte che il mondo non è interessato a noi difficilmente si svilupperà interesse verso il mondo. Davanti al rischio della fuoriuscita dal circuito scolastico, forse la scuola deve anche imparare a essere meno rigida, a capire che per certi alunni è davvero indispensabile ragionare per “obiettivi minimi” e che non si può chiedere ciò che un alunno non può dare; evitando insuccessi scolastici (specie se ripetuti) si darà forse la possibilità di apprendere in una fase successiva: un alunno che ha raggiunto la metà degli obiettivi di apprendimento ma che è restato nel circuito scolastico sarà pur sempre meglio di un alunno lasciato fuori dalla scuola

Nato a Firenze il 25 febbraio del 1970, si è laureato in Lettere con indirizzo storico all'università di Firenze nel 1998. Dal 2001 insegna Lettere alla Scuola Secondaria di primo grado. Nel dicembre del 2014 ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, "L'amore al tempo della rete" (Carmignani Ed.). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all'interno di raccolte antologiche; un suo articolo è apparso sulla "Antologia" del Lab. Vieusseux nel 2016.

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